Beto O’Rourke con la moglie e i tre figli. Foto LaPresse

Le presidenziali americane e il malus della maternità

Simonetta Sciandivasci

La genitorialità politica conviene soltanto ai padri. Biden, O’Rourke e gli altri

Contro il muro del pannolino – gentilezza per “un figlio ti distrugge la carriera” – sono andate a sbattere sempre le donne. E adesso? Tocca anche agli uomini? Sul punto, la molto affollata campagna elettorale statunitense, che per la prima volta vede ben sei ragazze in corsa (mamme biologiche, adottive, di nessuno, nonne, single: c’è di tutto) non dà buone notizie. Il femminismo universale avrà anche redistribuito gli oneri ma, di fatto, e soprattutto in politica, la paternità è un bonus e la maternità, invece, un vincolo, quando non proprio un malus. Vanity Fair ha scritto, nella cover story di qualche settimana fa dedicata al candidato democratico Beto O’Rourke, che suo figlio Henry (8 anni) gli ha detto: “Papà, se ti candidi piangerò tutto il giorno”. Poco dopo, il Washington Post ha scritto che, dei tre figli di O’Rourke, quello che soffre maggiormente l’assenza del padre è Ulysses (12 anni) perché “è grande abbastanza da ricordare com’era prima del Congresso, quando suo padre trascorreva più tempo in famiglia”. Immaginatevi se, al posto di Beto, ci fosse stata una donna. E’ probabile che sarebbe stata accusata di abbandono filiale, carrierismo esasperato, egoismo. Chiara Ferragni risponde in queste ore ai PM di Instagram che la rimproverano di essere andata in vacanza in Polinesia lasciando il figlio a casa. Direte che la storia non si fa con i se e neanche con gli hater di Chiara Ferragni. Giusto. Ricostruiamo il clima culturale con dati più concreti. Tucker Carlson, giornalista politico, s’è chiesto non molti giorni fa se Alexandria Ocasio-Cortez potesse dargli “lezioni di moralità”, visto che non ha figli. In una lunga analisi su come la paternità giovi al candidato e la maternità martorizzi la candidata – “Mom vs Dad on the road to 2020” – Rebecca Traister ha ricordato che cinque anni fa, a Wendy Davis, candidata democratica per il governatorato in Texas, veniva continuamente chiesto quanto tempo sottraesse alla sua famiglia. Sebbene avesse una storia personale piuttosto interessante, di quelle perfette con dentro la parabola del riscatto (da una famiglia molto povera ad Harvard), la sola cosa che interessava davvero gli elettori e i giornalisti era se fosse una madre premurosa, presente e dedita, se fosse capace di mantenere un equilibrio tra impegno politico e onere genitoriale, senza sacrificare il secondo per il primo. Al pari di O’Rourke, Davis era in campagna elettorale e quindi trascorreva molto tempo lontana dai suoi bambini: quel tempo veniva persino conteggiato da alcuni giornali. Alla fine, aveva perso le elezioni.

  

A O’Rourke basta filmarsi mentre pianta un alberello per l’Earth day insieme ai figli e alla moglie, la “Amy che si prende cura dei miei figli, talvolta con il mio aiuto”, per guadagnarsi il bollino del bravo papà, quello che nonostante la campagna elettorale, gli impegni, il lavoro, trova il tempo per stare con la sua famiglia perché sa che la genitorialità è reale solo se condivisa. Basta poco, a lui, a un maschio progressista, per sembrare un femminista: non gli è richiesto che lo sforzo di dire le cose giuste e di fare, ogni tanto, uno strappo alla regola. La regola è sempre la stessa: la dedizione maschile alla carriera, soprattutto politica, può e deve essere totale; la famiglia è sacrificabile (tanto ci pensa la signora). Per questo, tutte le volte che un uomo si concede ai propri figli, diventa un eroe. Per una donna vale l’opposto. Il femminismo universale ha fatto in modo che per gli uomini bastasse un’adesione formale, una dichiarazione, un posizionamento, per scagionarli da ogni assenza, ogni riproposizione di vecchi schemi per vecchi ruoli.

  

Barack Obama nel suo “The audacity of hope” ha ammesso di aver lasciato Michelle da sola a occuparsi delle figlie molto spesso. L’immagine forte di lui non è quella di un uomo che ha costruito il suo successo grazie alle rinunce di sua moglie, ma quella di un padre e un marito premuroso, attivo, vigile, uno che con la moglie ha diviso equamente tutto, incarichi genitoriali inclusi. Di Joe Biden, l’ultimo nuovo candidato ufficiale alla futura presidenza, reduce da un’indignazione spalleggiata da certi refoli del #metoo per via della sua abitudine di abbracciare, toccare, accarezzare le colleghe senza prima chiedere “posso?”, si continua a dire quanto coraggioso sia stato a crescere da solo due figli dopo la morte della prima moglie, molti anni fa, e ad andare avanti dopo aver perso un altro figlio, Beau, morto per un cancro al cervello nel 2015. Traister (che puntigliosa, che crudele) ha fatto notare che nessuno accenna mai al fatto che Biden si è risposato e, quindi, ha cresciuto i bambini insieme alla seconda moglie. “Sarebbe molto complicato stare lontano dalle piccole proprio in questi anni che sono i più delicati della loro crescita”, andava dicendo l’anno scorso Eric Swalwell, democratico, per smentire la sua candidatura alle prossime presidenziali, che ha tuttavia ufficializzato lo scorso 8 aprile.

   

Non c’è differenza concreta tra progressisti e conservatori: sul muro del pannolino si piange se si è femmine e si guadagna se si è maschi. Cambia la narrazione: i democratici non ostenterebbero mai una moglie come Melania Trump, silenziosa e glaciale, mai un passo fuori dal tracciato del marito, né una figlia come Ivanka Trump, che si fregia d’essere madre, moglie e lavoratrice perfetta per dimostrare che una donna può fare tutto – è la stessa retorica che adottò Sarah Palin, la “mamma orso”, per sostenere l’assetto della famiglia e dei ruoli tradizionali. L’editoriale perfetto sui democratici, e sul femminismo universale con cui s’indorano, è una recente vignetta del New Yorker in cui un omino che sta per bruciare una donna legata a un palo, le dice: “Lasciami cominciare dicendo che non c’è nessuno più femminista di me”.

   

“Riconosco di aver parlato da bianco privilegiato”, è una delle cose che ha detto Beto O’Rourke quando è stato criticato per quel “talvolta aiuto mia moglie a crescere i nostri figli”: non tutti hanno colto l’ironia con la quale aveva voluto autodenunciarsi come rappresentante di un modo di far politica per cui quando si candida il marito, la moglie, in casa, si sdoppia, e mai viceversa.

Mai.