Théodore Chassériau, La Toilette d'Esther, 1841

Sotto le braccia l'ultimo tabù

Fabiana Giacomotti

Dalla Maja ammiccante all’ultima copertina di Chi: sensualità ed estetica delle vituperate ascelle

“Quando una donna alza le braccia sui suoi seni perfetti, si compie un atto erotico inatteso, sorprendente” (Gérald Cursoux)

Ne “Le musée imaginaire de la femme”, stravagante saggio sull’anatomia della donna nell’arte moderna, Gérald Cursoux identifica in Théodore Chasseriau, e in particolare nella “Toilette di Esther”, un perfetto combo di “testa, seni, ascelle e braccia”, una sorta di kaiseki ideale per feticisti del particolare. L’avrete certamente presente, perché è uno dei quadri più pompier che siano mai stati dipinti, una composizione che, non fosse per la strepitosa abilità del pittore nella resa plastica e traslucida delle carni femminili, potrebbe passare per un calendarietto da barbiere (non era un caso che i ricchi banchieri gli dessero le proprie amanti da ritrarre, magari proprio una delle grandi orizzontali come Alice Ozy, evitando di consegnargli le mogli). Commentando quella Esther bionda e pienotta come una contadina normanna allevata a burro e pane fresco, Cursoux, che di solito scrive polar, cioè gialli a tinte fosche, fa notare una cosa che noi donne generalmente intuiamo per il senso di fastidio che ci provoca, ma che ci sfugge nel suo significato reale, e cioè l’allusione sessuale di cui le ascelle, con la loro fertile attività ghiandolare, sono al tempo stesso innocenti e peccaminoso richiamo. Scrive il critico: “Le braccia di una donna sono un richiamo alla rêverie, un argomento onirico: quando le alza sui suoi seni perfetti, si compie un atto erotico inatteso, sorprendente. Chasseriau l’ha ben compreso” in questa tela dove Esther fa come da copione l’imbronciata, ben sapendo di poterselo permettere “proprio per la sua bellezza eclatante e per quel punto vita ben segnato che mette in valore l’incavo delle ascelle, perfettamente liscio come il ventre e che invitano l’amante a posarvi un bacio”.

  

In Rai fino al 1957 vigeva il divieto di parlarne. Le braccia mollemente alzate di Virginia Saba, con l’ombra della peluria rasata in primo piano

Ci vuole un uomo, o una donna molto abile, per capire come sfruttare al meglio quell’incavo a cui la maggioranza di noi signore riserva solo attenzioni di ordine igienico-manutentivo, ricorderete certamente quella campagna televisiva e social di Dove sulle “povere ascelle” derelitte e con quel nome bruttissimo. Pierre Louys, l’eroticissimo, suonava ben altri tasti: “Immergermi, quando hai l’ascella sudata, con la bocca / sotto il tuo braccio tiepido e molle / tra i peli scuri e fini / e là, togliermi con avidità tutta la fame / del bel corpo gustoso sul quale il mio si sdraia”. E ancora Juan Ramon Jimenez: “Quando, dopo l’amore, ti raccogli i capelli / disordinati, come son belle le tue braccia! / Come in un libro aperto, emerge la lettera nera / delle tue ascelle, elegante e dolce sul bianco”. A questo punto, anche se vi avessero educate modello Orsoline pre-guerra, cioè facendovi fare il bagno con la camiciola e invitandovi a lavarvi bene tutti i giorni “sotto le braccia” (le ascelle hanno appunto quel nome bruttissimo, per cui sono innominabili e non solo in via teorica: in Rai, fino al 1957, vigeva il divieto assoluto di parlarne), avrete capito che quell’incavo ornato dalla peluria che vi ostinate a strappare rimanda in modo molto chiaro a un altro, e che le vostre consorelle più furbe sanno trarne il massimo vantaggio. Insomma, ecco che cos’era quel senso di fastidio e il motivo per cui l’ultima foto di copertina di Chi vi sembrasse così imbarazzante. Erano le braccia mollemente alzate di Virginia Saba, attuale fidanzata del vicepremier Luigi Di Maio, in una foto giovanile in lingerie scovata da quel genio del retroscena di Alfonso Signorini e piazzata lì, in copertina, con l’ombra blu scuro della peluria rasata, ma prepotente di vitalità, in primo piano. I detrattori dell’immagine, che per giorni si sono soffermati sul nylon della sottoveste, non hanno capito niente: il focus non erano le trasparenze e nemmeno i brutti pizzi fatti a macchina. Erano le ascelle della bella su cui aleggiava l’ombra scura, non corretta dal fotografo originario per manifesta incapacità e dal grafico di Chi per ovvia malizia. Insomma, un colpo basso o da maestro, vedetela come volete, e che riporta la questione delle ascelle femminili al centro di un dibattito estetico-filosofico che si protrae da decenni e che, nonostante l’apparente esiguità, trova ogni volta nuova linfa o, per stare al gioco, nuovi afrori.

  

 

“N’ascella sì n’ascella no”, diceva la coattissima Mara dei “Viaggi di nozze” di Carlo Verdone, una Manuela Arcuri molto simpatica e a tono, mostrando un incavo perfettamente rasato e uno ornato da una treccina di peli, volenteroso tentativo “de ddire quarcosa de novo” e poi saltava fuori, “ma che, davero”, che “l’aveva già fatto due anni fa Courtney Love”. Vituperate per secoli come ricettacolo e sentina di odori inverecondi, da Ovidio a Suskind è tutta una discesa negli inferi olfattivi dell’umanità, ultimamente le ascelle sono state oggetto di parecchi dibattiti, un po’ pelosi se ci passate la battuta, attorno alla loro rappresentazione più adeguata e, in seconda analisi, più o meno erotica. Come l’inguine, a cui rimandano nel modo più spudorato e più efficace perché volendo si può alzare un braccio e far partire una scarica di feromoni anche in tram mentre sventolare le gonne nella stessa situazione non è permesso, dagli anni Cinquanta in poi l’estetica delle ascelle sembra aver seguito l’andamento della sensibilità sociale nei riguardi della natura: più crescono le preoccupazioni per le sorti del pianeta e l’allontanamento dell’uomo dal famoso “stato di natura” enfatizzato dai primi Illuministi, più i boschetti femminili riprendono quota e vigore. Il Sessantotto era tutto un fiorire di peli, nella doppia declinazione “peace and love” e girl power, cioè femminista, il corpo è mio eccetera; da quando temiamo per le sorti del pianeta e le treccine di Greta hanno preso a girare vorticosamente per il mondo, è partito un nuovo movimento di opinione contro il rasoio, laddove in tempi reaganiani non si poteva essere altrimenti se non lisce e smaltate come vasche da bagno, e come si vide chiaramente la sera del crollo del Muro di Berlino: tutte nuove e splendenti sul fronte occidentale dove bruciavano i falò delle vanità e, con loro, ardevano i bruciatori della cera d’api, a est insomma. “Long hair… don’t care”, pubblicava sul web nel 2014 Madonna in lingerie, mostrando l’ascella non depilata, subito imitata dalla figlia.

   

Il pendolo estetico dell’ascella pare più preciso e definitivo di quello di Foucault: ondeggia a seconda dei momenti e delle convenienze, ma nell’ultimo trentennio non supera mai il limite del lustro. Qualcuno, come American Apparel, esagera in fervore, e attacca peli pubici e ascellari anche ai manichini. Lo scorso gennaio, una giovanissima furbacchiona del Warwickshire ha lanciato una campagna no profit, “Januhairy”, a favore dell’irsutismo originario: un mese senza rasoio, in cambio di non si sa bene che cosa. Essendo il gioco di parole molto ben riuscito, ci sono cadute in parecchie per qualche settimana (noi donne siamo affascinate dalla fonetica, in genere), inviando selfie con l’ascella alzata e ombreggiata come pattuito, oltre a qualche vaga o concreta promessa di elargizione. Poi, se ne è saputo più nulla: evidentemente, l’operazione serviva ad accrescere la notorietà social della ragazza. Sul tema, le più intelligenti naturalmente scherzano.

  

Sono arrivate anche a teatro: qualche anno fa un gruppo di scrittrici e attrici ha imbastito “I monologhi delle ascelle”

Qualche anno fa, seguendo la stessa logica del rimando estetico e simbolico delle ascelle alle complesse attività inguinali che regola la tempistica delle visite ai centri di bellezza, insomma sulla falsariga dei celebri “Monologhi della vagina” di Eve Ensler, un gruppo di scrittrici e di attrici italiane, fra cui Sabrina Impacciatore, Claudia Gerini ed Enrica Tesio, imbastì uno spettacolo teatrale molto divertente, per l’appunto “I monologhi delle ascelle”, scritti da Morena Rossi a cura di Energie Sociali Jesurum Lab per sostenere la casa rifugio Il Battello. Promuoveva l’iniziativa la stessa marca di deodoranti e saponette Dove che aveva lanciato la campagna pubblicitaria sulle “povere ascelle maltrattate” (doveva esserci un fior di direttore marketing, di solito le multinazionali non sono mai così spiritose né, tantomeno, così coraggiose), e ne venne fuori una meraviglia di scrittura e di interpretazione. Nessuna delle interpreti era andata a rivangare vecchie storie letterarie, memorie ferine o ricordi delle pratiche scarsamente igieniche di un tempo. Insomma, non vi erano rimandi al ributtante e indimenticabile episodio della fuga dai Piombi in cui Giacomo Casanova racconta come, schiaffato in cella col suo miglior vestito e mancandogli la stoppa per fabbricarsi una lucerna, aveva preso la stoppa dell’imbottitura che il sarto gli aveva messo sotto le ascelle per evitare che il sudore macchiasse il vestito e le aveva dato fuoco, certo che sarebbe bruciata a lungo. La prossemica teatrale delle ascelle si era invece soffermata sulle gesta del meno seducente e del più bacchettone fra i presidenti della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro, che in gioventù e di certo per farsi bello presso i maggiorenti diccì, nel 1950 aveva battibeccato ad altissima voce al ristorante con una signora che, in una torrida giornata romana, si era tolta il bolerino, rimanendo a braccia nude e consentendo dunque una rapida sbirciata delle ascelle e a quanto racchiudevano, o avrebbero potuto emanare, fra i signori che avessero voluto aguzzare la vista o attivare i recettori feromonici, e che erano evidentemente numerosi. Pochi anni dopo, alla Mostra del Cinema di Venezia del 1955, Sophia Loren posava per una foto in bustino di jersey di seta drappeggiato, braccio alzato ed esuberanti riccetti in primo piano, accanto al volto e alla grande bocca tumida socchiusa, e gli americani ne rimanevano sconvolti al punto di domandarsi se non fosse il caso di rifuggirla, quella scandalosa Italia che mostrava in modo così plateale la propria natura sensuale, o buttarcisi a capofitto (scelsero la seconda opzione, come si sa e come accade tuttora, come si capisce dagli sguardi che le turiste lanciano in giro mentre percorrono ostinatamente via Veneto senza sapere che ormai vi alberga solo il vicepremier Di Maio).

 

Ipnotiche catalizzatrici di attenzione, al punto che sul web si trovano consigli su come scattarsi i selfie senza metterle in mostra

Per quanto si voglia scherzare o girarci attorno, la storia dell’attrattività sessuale, dell’appetibilità femminile e anche maschile (pensate a don Giovanni, a come esercita tutti i sensi e ogni arte per spandere attorno il proprio odore di maschio e a come percepisce anche al buio il profumo “di femmina” di donna Elvira, ma anche ai film dei Vanzina con Enzo Salvi e Christian De Sica, tutti un usmarsi sotto le braccia per darsi forza) è stata scritta dalle ascelle, e dunque è giusto che a loro, e a nessun’altra parte del corpo, vada consegnata la palma di ultimo tabù. Non è un caso che la prima grande opera moderna, la “Maja desnuda” di Francisco Goya, cioè la prima donna nuda reale, con nome e cognome propri e non mitologici, posi a braccia alzate, ancorché lisce e morbide, e sono del tutto comprensibili le ragioni per le quali il pittore dovette subire un processo presso il tribunale della Santa Inquisizione. Ancora centotrent’anni dopo, cioè nel 1930, il dipinto suscitava un tale scandalo che gli uffici postali americani decisero di respingere al mittente le lettere provenienti dalla Spagna che aveva deciso di dedicarle un francobollo. La posa rilassata, supina, quell’offrirsi a braccia alzate e con lo sguardo dritto negli occhi dello spettatore era giudicato ben più osceno di quanto avrebbe potuto suggerire il monte di Venere in bella vista ma che, in realtà, nessuno guardava. Le ascelle sono catalizzatori di attenzione ipnotici, al punto che sul web si trovano molti consigli su come scattarsi i selfie senza mettere in mostra le succitate che, pare, permangono sulla retina per un tempo più lungo rispetto al viso. E di essere ricordati per le ascelle, per la nostra natura animale che quelle due grottarelle continuano a denunciare, crediamo che nessuno abbia davvero voglia.

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