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Casa all'italiana

Marina Valensise

Ritratto di un interno per famiglia, dove dominano armonia e conforto. Il genio di Gio Ponti per una villa nel verde della campagna francese

Per andare a Garches, piccolo comune a ovest di Parigi, bisogna attraversare il Bois de Boulogne, uscire dalla città, e in venti minuti si arriva in questo paesino immerso nel verde, la banlieue chic della buona borghesia parigina. Qui nel 1925 Tony Bouilhet, discendente di Charles Christofle e direttore artistico della fabbrica di argenteria nata un secolo prima, aveva acquistato un terreno a pochi passi dal Golf Saint Cloud, di cui era assiduo frequentatore. E qui nel 1927 Gio Ponti costruì quella che doveva restare la sua prima e unica casa in Francia.

 

Tony Bouilhet fu conquistato dall’estro travolgente di quell’architetto italiano sempre con la matita in mano

I motivi decorativi per il vetraio Fontana, che creerà di lì a poco il marchio per la produzione di lumi e lampade disegnati dall’architetto

Tony Bouilhet l’aveva conosciuto a Parigi due anni prima, in occasione dell’Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali. Era rimasto incantato dal quel milanese dal sorriso aperto, elegantissimo nel suo completo carta da zucchero, che sembrava aggirarsi come un dandy fra le plumbee grisaglie parigine all’Esplanade des Invalides. Ponti aveva 34 anni, Bou-ilhet 29. I due simpatizzarono subito e dopo molte cene ben annaffiate sugli Champs Elysées al Boeuf sur le Toit, spesso in compagnia di Man Ray, Jean Cocteau e altri artisti d’avanguardia, tanti progetti di collaborazione spuntarono tra loro come funghi, e nacque un’amicizia che sarebbe durata mezzo secolo, generando un solidissimo sodalizio. Bouilhet venne conquistato dall’estro travolgente di quell’architetto italiano, grafico, disegnatore, creatore di mobili, oggetti, lampade e tante idee moderne, diplomato al Politecnico di Milano e sempre con la matita in mano. “Gio Ponti, nato a Milano nel 1891, è un Italiano, un Lombardo, un Milanese”, scriverà di se stesso vent’anni dopo l’eclettico inventore del design italiano del Novecento. “Un uomo allegro, sempre attivo, che scrive, disegna, costruisce, viaggia: che ama vivere. Che non appartiene ad alcun movimento o scuola, ma si affida unicamente alla maturazione che deriva dal suo lavoro… e vive in uno stato di inquietudine produttiva, prendendo parte alla sua epoca con un entusiasmo appassionato”. E quando Ponti vinse all’Esposizione parigina il premio speciale per la ceramica con la “Passeggiata archeologica”, la famosa urna in porcella bianca con decorazioni in oro della Richard-Ginori, di cui dal 1923 era direttore artistico, Bouilhet capì che doveva puntare su di lui per rilanciare la linea di produzione dell’azienda di famiglia Christofle.

 

Iniziò così una collaborazione feconda tra due talenti quasi coetanei che guardavano all’innovazione industriale con la stessa attenzione maniacale per l’artigianato di qualità, inseguivano la stessa aspirazione al moderno attraverso forme più sciolte, più libere e immediate, con le quali dimenticare il passato e lasciarsi alle spalle il clima tragico della Grande guerra. Ponti cominciò a disegnare candelabri, zuccheriere, servizi da tavola per Christofle. All’inizio pensava a una collezione di pezzi in stagno, ma poi visto l’insuccesso commerciale, vennero prontamente argentati, e le vendite lievitarono. Erano pezzi super moderni ma classici, evocativi di un passato comune, di una tradizione sempre viva. Così, all’architetto italiano, diventato ormai un amico intimo, Bouilhet decise di affidare il progetto per la casa di campagna da costruire a Garches, su un terreno lievemente scosceso a pochi metri da Villa Stein-Le Monzy, l’ipermoderna “machine à habiter” tutta vetri e cemento armato costruita da Le Corbusier per quattro americani a Parigi, Gertrude, Leo, Michael e Sara Stein, e a poca distanza da un altro capolavoro dell’architettura contemporanea, la villa progettata da Armand Perret per il ministro egiziano Nemur Bay, il quale ne era rimasto talmente soddisfatto da ordinargliene subito una replica per il Cairo.

 

Bella sfida, dunque, per l’architetto uscito dal Politecnico di Milano. Fino ad allora si era cimentato con le ceramiche di Doccia e coi pezzi di argenteria per Christofle, e aveva progettato un’unica casa, quella in cui viveva a Milano, in via Randaccio, piccolo monumento palladiano, con pianta a ventaglio e una facciatina concava con obelischi (procuratevi subito “Gio Ponti e Milano. Guida alle architetture 1920-1970”, pubblicato da Quodlibet con testi di Lisa Licitra Ponti e prefazione di Stefano Boeri). D’altra parte, il fatto che sua nipote Carla Borletti, figlia della sorella di sua moglie Giulia, Maria Vimercati, arrivata a Parigi per studiare il francese si fosse fidanzata con Tony Bouilhet, rendeva tutto più semplice. Gio Ponti dunque nel giro di due anni, col concorso di Emilio Lancia e Tommaso Buzzi, concepì, progettò e realizzò la sua prima “casa all’italiana” nel verde della campagna francese, trasferendo il modello della villa palladiana e rivisitando gli elementi dell’architettura classica, colonne, frontone spezzato, occhi di bue, serliane. E teorizzò il tutto nel 1928 sul primo numero di Domus, la rivista da lui fondata: “Nella casa all’italiana non vi è grande distinzione fra esterno e interno: da noi l’architettura di fuori penetra nell’interno, e non tralascia di usare né la pietra né gli intonaci né l’affresco; nei vestiboli e nelle gallerie, nelle stanze e nelle scale, con archi, nicchie, volte e con colonne, regola e ordina in spaziose misure gli ambienti della nostra vita. Dall’interno la casa all’italiana riesce all’aperto con i suoi portici e le sue terrazze, con le pergole e le verande, con le logge e i balconi, le altane e i belvederi, invenzioni tutte confortevolissime per l’abitazione serena e tanto italiane che in ogni lingua sono chiamate con nomi di qui… Il suo disegno non discende dalle sole esigenze materiali del vivere, essa non è soltanto una ‘machine à habiter’. Il cosiddetto ‘comfort’ non è solo nella rispondenza delle cose alle necessità, ai bisogni, ai comodi della nostra vita e alla organizzazione dei servizi: è qualcosa di superiore, esso è nel darci con l’architettura una misura per i nostri stessi pensieri, nel darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua larga accoglienza il senso della vita confidente e numerosa, ed è infine, per quel suo facile e lieto e ornato aprirsi fuori e comunicare con la natura, nell’invito che la casa all’italiana offre al nostro spirito di recarsi in riposanti visioni di pace, nel che consiste nel vero senso della bella parola italiana, il CONFORTO”.

 

Ed eccoci qui, dunque, nel pieno conforto di questa casa speciale e semplicissima, dove tutto, a novant’anni di distanza, ha conservato il marchio d’origine grazie alla cura delle sorelle Bouilhet, nipoti di Tony e Carla, che in questa casa hanno vissuto sin da piccole e, dopo la morte del padre, hanno voluto conservare tutti i ricordi. Sophie Bouilhet-Dumas, terzogenita di Aldo e Mirabella van der Noot, curatrice della retrospettiva su Gio Ponti al Musée des Arts Décoratifs (in corso fino al 10 febbraio) ci apre le porte dell’Ange Volant, nome scelto da Ponti dopo aver scartato la Sainte Cloudienne, per la casa della nipote Carla, l’angelo della casa, volato da Milano a Parigi, con tanto di blasone sulla porta d’ingresso che rappresenta per l’appunto un angelo in volo che tiene sollevata sulle braccia la maquette di quella casa, con la sua facciata palladiana, la veranda, il terrazzo e il giardino.

 

Ponti cominciò a disegnare servizi da tavola per Christofle. Nel 1927 Bouilhet gli affidò il progetto della casa di campagna

L’atrio e la perfetta armonia della sua pianta ellittica. Il salone, uno spazio a pianta libera che riproduce l’infilata dei palazzi classici

Entriamo nell’atrio e la prima cosa che colpisce è la perfetta armonia della pianta ellittica che si apre a sinistra su un bagno e sulla stanza degli ospiti e a destra porta da un lato verso la zona servizi e dall’altro nel salone sul giardino. Il soffitto, spiega Sophie Bou-ilhet, è decorato in stucchi con fregi che probabilmente riproducono il disegno di Iacopo Sansovino alla Biblioteca Marciana. “E’ stato Toto Bergamo a suggerirci il modello dal quale Ponti aveva potuto riprendere l’idea”, spiega sorridendo. “I soffitti dipinti sono una tradizione del Rinascimento italiano. E Ponti conosceva benissimo Venezia, il Veneto e le ville palladiane, che aveva studiato e disegnato durante gli anni della guerra”. Ma la vera emozione è entrare nel salone, uno spazio a pianta libera, che riproduce l’infilata dei palazzi classici, ma senza solennità, senza niente di aulico. “Sembra di essere in Italia, vero?”, domanda Sophie Bouilhet. Vero, verissimo, ma senza concitazione, senza ironia dissacrante, come se fossimo ancora rispettosi dell’antico. “Gio Ponti nel 1925 era rimasto impressionato dal padiglione francese e dalla pianta a doppia altezza di Mallet Stevens, col dipinto di Sonia De Launay che separava gli spazi come se fosse una tenda. Per lui fu uno choc”, racconta Sophie Bouilhet. Fu così che decise di ispirarsene per la casa di Garches. Ecco dunque anche qui l’open space interrotto solo dalla funzionalità dei vari ambienti: a sinistra la sala da pranzo con in fondo una nicchia che un tempo s’apriva su una veranda, poi trasformata nel salone della casa dei genitori di Sophie, e dove oggi è appeso il ritratto di un bambino dallo sguardo incendiario. “E’ il nipote dell’orafo Charles Christofle, Henri Bouilhet, ingegnere chimico di genio: aveva studiato all’Ecole Centrale e a fine Ottocento mise a punto la galvanoplastica, una tecnica che permetteva attraverso l’elettrolisi di preparare dei pezzi metallici, riproducendo attraverso dei calchi le forme dell’argenteria antica, con notevole riduzione di tempi e costi di fabbricazione, e grandi profitti (nda). Fu così che nacque la produzione industriale dei pezzi di argenteria rivolta alla nuova borghesia urbana, descritta nei romanzi di Emile Zola, che sognava di apparecchiare Tavole sontuose come quelle dell’aristocrazia”.

 

Dall’altro lato, lo spazio corre libero fino al coin de feu, dove in fondo alla parete sul camino un’altra nicchia simmetrica alla prima accoglie l’esemplare dedicato alle nozze di Tony e Carla dell’urna Ginori, uscita dalla manifattura di Doccia, con cui Ponti vinse il premio per la ceramica all’Esposizione parigina del 1925. “Qui di lato c’era un acquario. Era così profondo e talmente difficile da pulire, che mia nonna, con l’accordo di Ponti, decise di sostituirlo con un muretto-vetrina”. Altro principio cardine del vivere all’italiana di Gio Ponti, restituire allo spazio interno il suo respiro, rinunciare a corridoi, muri divisori, alla teoria di una stanza nell’altra… E infatti, la sorpresa più inattesa di questa casa all’italiana in terra francese è l’assenza di ostacoli tra un vano e l’altro, la scomparsa di ogni separazione, e la perfetta libertà del volume a doppia altezza, collegato al piano superiore da una scala che corre sul lato lungo della casa, con la sua ringhiera in ferro e ottone, a suggello della collaborazione tra l’estro italiano e l’industria francese. Pezzo unico prodotto da Christofle, la ringhiera continua nella balaustra lungo il mezzanino, con l’effetto di un intarsio tra le colonnine di ferro che scandiscono i riquadri d’ottone con le loro geometrie in movimento (che forse riecheggiano a Milano nei ferri per le finestre del Planetario Hoepli di Piero Portaluppi). Qui tutto è ordine, semplicità, nitore. Il soffitto, affrescato nella tinte originali del giallo e azzurro pastello, sembra una tenda tesa sul salone che riproduce gli stucchi veneziani. Dentro gli stucchi si leggono ancora oggi, perfettamente ripuliti e restaurati, i disegnini originali di Gio Ponti, che per la casa della giovane coppia Bouilhet-Borletti aveva immaginato il doppio profilo di lei e lui, due B incrociate da una V, e il doppio tricolore della bandiera italiana e francese. Niente è lasciato al caso. Nemmeno la scrivania in frassino di Tony Bouilhet, con un vetro al centro del ripiano per vedere dall’alto i fascicoli riposti nel cassetto, la sedia superleggera e un’altra seduta rivestiva della stoffa di velluto a pallini in rilievo ideato da Gio Ponti e prodotta ancora da Rubelli. E se regna il caso, lo fa entrando in gioco in perfetta libertà, senza vincoli né costrizioni, ma secondo logica, sbizzarrendosi per esempio nelle maniglie di ottone, che hanno la stessa forma, ma cambiano nella rifinitura per un piccolo dettaglio, sviluppando una corolla di fiore per le porte di rappresentanza o un semplice bottoncino per le altre.

 

Persino le vetrate del terrazzo sul giardino sono un inno alla libertà che deve correre sciolta, spontanea, naturale, senza ostacoli, come la luce del sole. Niente tende, ma solo la semplice armonia dei riquadri a specchio sulle lesene che scandiscono le aperture, con i motivi decorativi inventati da Gio Ponti per il vetraio Fontana, che creerà di lì a poco la Fontana Arte, nuovo marchio glorioso per la produzione di lumi e lampade disegnati dall’architetto. La libertà dello spazio dischiude una molteplicità di punti di vista. E infatti, salendo le scale e guardando dal mezzanino si scopre una prospettiva teatrale, aerea, profonda, libera e invitante. Non solo per il soffitto colorato e decorato di stucchi come un palazzo veneziano, ma per l’invito a uscire, a passare dall’interno all’esterno e lanciarsi nel giardino, che scivola verso uno stagno, oggi trasformato in piscina, dove grazie alla pendenza si riflette nei giorni di sole l’immagine della facciata, col suo portico a due colonne, e la perfetta scansione delle finestre in alto e delle aperture in basso. “La casa finiva con le aiuole dopo la piscina, ma la proprietà di famiglia continuava fino alla strada”, ricorda Sophie Bouilhet. “Così, ciascuno dei cinque figli nati dal matrimonio di Tony e Carla Borletti ha potuto costruire una casa sul terreno comune, per ritrovare i giorni felici dell’infanzia offrendo ai figli e ai nipoti, una banda di 18 cugini che passavano le vacanze sempre insieme, il senso della famiglia e e il gusto delle radici”. Tutto molto italiano, insomma, per chi negli spazi di questa casa piena di luce e di armonia, dove Ponti avrebbe voluto non solo vivere, ma morire, imparava ogni giorno il vivere all’italiana.

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