Sinéad O’Connor

Nelle fauci della bestia

Costantino della Gherardesca

Perché la conversione all’islam di Sinéad O’Connor è meglio del populismo opportunista di Madonna

Mentre il panorama musicale italiano non offre grandi novità oltre all’ormai conclamata svolta sovranista di Rita Pavone, da un’altra provincia dell’impero, la cattolicissima Irlanda, arriva finalmente una notizia capace di distrarmi dalle mie due principali preoccupazioni: i debiti e la fisioterapia.

 

Sinéad O’Connor, dopo anni di cristianesimo convinto e una sentita parentesi rastafariana, si è convertita all’islam. Dopo essere stata confinata per anni ai margini dello showbiz per le sue scelte anticonvenzionali, nella musica come nella vita privata, Sinéad ha dichiarato di essere approdata alla religione musulmana come “naturale conclusione del percorso di qualsiasi teologo intelligente”. Non ha fatto nulla per rientrare nelle grazie del pubblico, per rispettare i meccanismi di approvazione che regolano la noiosissima macchina del consenso, un ingranaggio che – proprio come il software “La Bestia” ideato da Luca Morisi, lo spin doctor artefice della propaganda digitale di Salvini – sbrana e silenzia chiunque non sia allineato ai gusti più popolareschi.

 

Il momento più celebre della storia personale di Sinéad O’Connor coincide con l’inizio della fine della sua carriera

Come può, in fin dei conti, compiacere le attese del pubblico più becero un’artista che nel 2005, anziché rispolverare hit mondiali come Nothing Compares 2 U, ha fatto un disco come Throw Down Your Arms? Un capolavoro che si apriva con una cover scarnificata, quasi a cappella, di Jah No Dead di Burning Spear (uno dei padri fondatori del roots reggae), inno rastafariano del 1978 che nello stesso anno apparve anche nel leggendario film Rockers, una sorta di mix giamaicano tra Ladri di biciclette e Robin Hood.

 

Una persona fuori dalla norma come Sinéad non poteva che essere masticata e risputata dalla Bestia. E questo rifiuto le fa onore, perché se il metro di giudizio lo stabilisce un’opinione pubblica abituata a digerire il peggio, allora il disprezzo e l’emarginazione sono medaglie al valore.

 

E di emarginazione Sinéad ne sa qualcosa, visto che il momento più celebre della sua storia personale coincide con l’inizio della fine della sua carriera.

 

Era il 3 ottobre del 1992 quando, dopo aver fatto calare il silenzio nello studio del Saturday Night Live durante la sua esecuzione a cappella di War di Bob Marley, Sinéad strappò davanti alle telecamere una foto di Woytjla al grido di “Fight the real enemy!” (combatti il vero nemico). Piccola nota a margine per chi allora non era nato o non aveva le orecchie sufficientemente sturate: durante la canzone Sinéad sostituì un paio di parti del testo (originariamente dedicate ai regimi dittatoriali africani e alle popolazioni vittime delle loro violenze) con le parole “child abuse” e “children”, ripetendole e marcandole visibilmente. Durante le prove, per tranquillizzare la produzione, la cantante aveva portato con sé la foto di un bambino soldato, ma in vista della diretta la cambiò di nascosto con la celebre foto del Papa. Stracciando la foto del Pontefice, Sinéad sperava di sensibilizzare il pubblico americano sullo scandalo – allora ancora insabbiato ad arte – delle accuse di pedofilia nel clero irlandese, ma le cose non andarono proprio così. Si prese mazzate da destra e da sinistra e si giocò la carriera.

 

Il suo gesto, infatti, destò molto scalpore e causò un’ondata piuttosto unanime di sdegno, ma nessuno ne colse (o ne volle cogliere) il vero significato. Oggi che sono passati ventisei anni e la pedofilia tra i preti è una realtà davanti alla quale il Vaticano non può più far finta di nulla, l’atto di Sinéad ha smesso di sembrare una provocazione fine a se stessa e suona come la pura e semplice manifestazione di rabbia di una ragazza che per un attimo si era illusa di poter cambiare il mondo.

 

All’epoca, invece, allo squallido coro degli indignati si unì anche la voce di quella che – per motivi che ancora mi sfuggono – è unanimemente considerata la regina interplanetaria dei froci: Madonna. Terrorizzata che i media potessero trascurare il massiccio tour promozionale del suo disco Erotica per dedicarsi ai poeticissimi e incontrollabili scleri della povera Sinéad (cosa che, di fatto, avvenne), la calcolatrice italoamericana si lanciò all’attacco della nostra fragile dea irlandese, disprezzando la sua scelta di dissacrare un simbolo di fede e facendo anche commenti penosi sull’aspetto fisico di Sinéad, definendola sexy quanto una tapparella giudicando il suo look e il suo taglio di capelli come quello di una suora finita sotto un tosaerba. Stiamo parlando della stessa persona che si fa chiamare come la madre di Gesù Cristo, di una che nel 1989 – ballando in una chiesa nel video di Like a Prayer – animava la statua di un santo a furia di strusciarcisi contro e che oggi fa la paladina della body positivity. In poche parole, una donna che ha sempre dimostrato uno sconfinato talento nell’ammaestrare la Bestia del consenso popolare e nel piegarla a suo favore.

 

Insomma, in questo scontro tra icone pop, da una parte abbiamo Madonna: straordinaria comunicatrice e sfruttatrice di talenti (altrui) ma cantante scarsa, sempre pronta a sposare una causa nell’esatto istante in cui questa diventa innocua e redditizia, ma rapidissima nello sparare moralismi se qualcuno si azzarda (più o meno volontariamente) a pestarle i piedi; dall’altra abbiamo Sinéad O’Connor, oggi ribattezzata Shuhada’ Davitt: una fatina bipolare dalla voce portentosa, sempre pronta a schierarsi in prima linea senza preoccuparsi che qualcuno le copra le spalle. Una guerra tra popstar che sotto molti aspetti mi ricorda il famoso “scontro di civiltà” con cui ci hanno ammorbati e aizzati per anni. Anche in quello scontro pompato dai media occidentali, non a caso, le fazioni in gioco non sono affatto come ci sono state dipinte.

 

Una guerra tra popstar, quello tra la O’Connor e Madonna, che sotto molti aspetti mi ricorda il famoso “scontro di civiltà”

Da una parte vedo il mio mondo, fondato sulla religione nella quale – mio malgrado – sono cresciuto: vecchio, timoroso, luddista e rancoroso, ma da sempre illuso d’essere ultramoderno e progressista. Dall’altra vedo un mondo del tutto diverso, fondato su una religione che – nonostante tutte le inutili e anacronistiche politiche di chiusura dei confini – ci sta crescendo intorno: un islam giovane, contemporaneo, finanziariamente spregiudicato (ai limiti del mio amato sperpero), consapevole di aver molta strada da fare, ma umanamente accogliente.

 

Se solo il prosciutto crudo non fosse uno dei pilastri della mia vita, anch’io seguirei le orme di Sinéad/Shuhada’. O, magari, potrei accontentarmi di una conversione a metà, come quella di Lindsay Lohan che, emarginata da Hollywood, negli ultimi anni si è dedicata alla lettura del Corano e si è ritirata a Dubai per darsi una ripulita, trovarsi un ricchissimo fidanzato svizzero e lanciare mille progetti tra cui una linea di cosmetici, un club a Mykonos e la creazione nel Golfo Persico di un’isola-resort che porterà il suo nome: Lindsayland.

 

Tra la scelta della tonalità albicocca per il suo prossimo fondotinta e il design dei piloni subacquei che terranno a galla Lindsayland, Lindsay ha trovato il tempo per tenere vivo il fuoco della sua spiritualità, attirando l’odio di mezzo mondo. Considerando l’orrore estetico e lo sterminio di poesia cui assisto quotidianamente nel mondo della televisione, mi piacerebbe tanto raggiungere Lindsay e Sinéad tra le fauci della Bestia.

 

Ma c’è un problema medico ben più grosso del prosciutto che blocca, letteralmente, una mia eventuale conversione all’islam e la mia conseguente carriera nel teatro d’avanguardia, dove potrei fare danza interpretativa sui versi di Ferdowsi. Tempo fa, infatti, durante un mio soggiorno a Dubai, anziché trovarmi un miliardario elvetico come la saggia Lindsay, mi sono schiantato il ginocchio contro un tavolino del Park Hyatt. Dopo esser andato di corsa dall’ortopedico, ho scoperto di essere affetto dalla sindrome di Osgood-Schlatter, una malattia che si manifesta con una piccola protuberanza ossea che cresce sulla parte frontale superiore della tibia, rendendo faticoso o addirittura doloroso il piegare le gambe oltre certe angolazioni. In poche parole, mi è difficile inginocchiarmi, abilità indispensabile se si vuol pregare come bravi musulmani. Un ostacolo di proporzioni drammatiche lungo il mio personale percorso teologico, poetico e artistico verso la totale impopolarità, al termine del quale sarò in grado di splendere come una fiamma zoroastriana e di rivelare mistiche verità.

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