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Come cambia Halloween nell'anno del #metoo

Simonetta Sciandivasci

Così nella notte delle streghe al posto dei mostri abbiamo piazzato i nostri traumi

Roma. Nel suo “Storia della bruttezza”, un atlante di mostri, streghe, diavoli e inferni, Umberto Eco scrisse che l’arte ha sempre rappresentato il mostruoso perché “per marginale che fosse la sua voce e malgrado l’ottimismo di alcuni metafisici, a questo mondo c’è qualcosa di irriducibilmente e tristemente maligno”. Halloween celebra (lo fa da quando il suo significato letterale – “viglia di Ognissanti” – s’è perso e sono arrivate le streghe) questa irriducibilità e ci fa travestire da quello che non possiamo combattere, o risolvere, o portare in psicoterapia: quello che non ci rimane che accettare e temere e, una volta riconosciutane la signoria, sbeffeggiare. Quello che nasce con noi, che è una parte – nascosta o scandalosa o inaccettabile – della nostra natura.

 

“Halloween può dirci chi vogliamo essere e cosa temiamo di diventare” ha scritto The Conversation in un articolo che ieri spiegava come la notte delle streghe sia diventata qualcosa di molto più complesso di una sfilata per bambini, di un carnevale macabro, di una gigantesca seduta spiritica e sia, invece, sempre di più un appuntamento per adulti, una rendicontazione della propria identità da una parte e una sfida di creatività dall’altra. Le feste di Halloween sono un business che attrae una fascia d’età precisa: i venti-trentaquattrenni (suppergiù i millennial), quindi i grandi fregati, quelli che maturano più lentamente di chi li ha preceduti perché non trovano un lavoro o, se lo trovano, non è quasi mai un lavoro che consente loro di esprimersi. Halloween è, per questa generazione, un prolungamento dell’infanzia, ma pure un’occasione di estroversione e di invenzione di un altro sé, un altro mostro o mostriciattolo, una creazione con la quale competere per un premio. Dare al proprio mostro un impiego, un obiettivo (e addirittura un premio!) significa risolverlo? Può darsi.

 

Il film di questo Halloween è il sequel dell’Halloween di Carpenter del 1978. “Halloween 2018 è un film sul trauma”, ha scritto l’Independent. Nel 1978, la più grande paura degli americani era che il vicino di casa fosse un serial killer, cioè che il male (un male senza famiglia, senza cause culturali: un male puro, irriducibile) crescesse tutto intorno al bene, pronto ad aggredirlo, sopraffarlo e ucciderlo, quindi Carpenter girò un horror nel quale Jamie Lee Curtis veniva inseguita per le strade di una città immaginaria da un assassino.

  

 

Quarant’anni dopo, Jamie Lee Curtis è un’anziana signora che vuole vendicarsi di tutto quel terrore e aspetta il suo aguzzino, da decenni, in una casa che ha trasformato in un labirinto di trappole. Lo fa perché è una vittima a cui nessuno ha offerto riparazione, una donna costretta a convivere, da sola, con un trauma taciuto e irrisolto ma – qui la novità – risolvibile. In questo senso, secondo l’Independent, Halloween 2018 ha a che fare con il #metoo: tanto il film quanto il movimento mostrano come un trauma possa trasfigurare chi lo subisce, ed entrambi lo fanno per indicare che un modo per redimere quella trasfigurazione (un modo diverso dalla vendetta, naturalmente) non solo esiste, ma va cercato. Jamie Lee Curtis ha detto che questo è un film che riflette su come i traumi non risolti si trasmettano, di generazione in generazione, perpetrandone da un lato la violenza e dall’altro lato il bisogno di vendicarla, producendo ulteriore violenza. Il male non è più il maligno, ma il segno di una violenza. Halloween non è più una sfilata, ma un esorcismo. Lady Gaga non sale più sul palco a dire di tirar fuori il proprio piccolo mostro, di modo che tutti lo vedano e lo accettino: fa campagne per affrontare e superare il dolore dei graffi del mostro. Chissà se sia o meno illusoria la possibilità di un mondo dove “gli spettri non osano vagare, le notti sono salubri e le streghe non affatturano, tanto benigno e sacro è il tempo” (Amleto).

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