Gli scorticatori di pannocchie di Simon Hollósy, 1885

Così proposte di nozze, battesimi e “mesiversari” ci rendono incapaci di dire di no

Simonetta Sciandivasci

Se ogni tappa della vita è la più importante e fondamentale come si può rifiutarla?

Roma. C’è qualcosa, nel nostro tempo – e nel modo in cui facciamo esperienza delle cose e le raccontiamo, nelle pretese che vantiamo sulla realtà e nelle aspettative conseguenti – che ha aumentato la problematicità del consenso. Sapevamo da prima che diventasse un nodo del nuovo femminismo che una buona parte dei nostri sì è un no travestito, ingoiato, rimosso per non apparire maleducati, inadatti, spaventati, inesperti, insensibili. In fondo, accettavamo la cosa come un dato ineliminabile dell’esperienza umana, della vita e della sua imperfezione (sbagliavamo? Dipende: se la problematicità del consenso è risolvibile, sì; se non lo è, no). E ora? Mettiamo da parte il sesso e consideriamone un affine: il matrimonio.

 

  

Amanda Hess ha creato per il New York Times un collage di video sulle proposte di matrimonio, che negli Stati Uniti sono eventi hollywoodiani, con complesse e ardite regie di richiedenti (quasi sempre maschi) amore eterno, e s’è domandata come possa, una ragazza, davanti a un poveraccio che si getta dal balcone su una gigantesca pedana con sopra scritto “Vuoi sposarmi?”, mentre tutto il vicinato applaude, a dire: “No, non voglio”. Chi di noi avrebbe il cuore di rifiutare un crazy romantic boy, umiliandolo davanti a tutti? Nessuno, forse nemmeno quelle che odiano i delfini, o i Beatles. Hess ha inserito nel suo collage anche i video – molto in voga – dell’apertura delle buste con i verdetti di ammissione all’università: adolescenti filmati mentre esultano come pazzi, in cucine o salotti già agghindati a festa di laurea, con tutta la famiglia riunita come fosse Natale. Cosa c’entra col consenso? Tutto.

  

A complicare un no o un sì, da dire o da ricevere, oltre allo schema per il quale a qualcuno che asserisce (solitamente il maschio) corrisponde sempre qualcuno che obbedisce (solitamente la femmina), e oltre al condizionamento culturale per cui alle esperienze classificate come piacevoli (il sesso, per esempio) sottrarsi sia da menomati, c’è l’enfasi che poniamo su tutte le cose: che siano tappe della vita sentimentale, traguardi professionali, semplici compleanni, “mesiversari” (scusate la parola, però è scritta persino su certi palloncini e bigliettini; auguri, amore, per i nostri primi tre mesi; auguri, per queste diciassette settimane su questa terra).

 

Se ogni cosa è illuminata, e agghindata, e gravata di eccezionalità; se ogni cosa è imperdibile e unica e guai a privarsene, a non battezzarla, a non celebrarla, come si può esercitare il no? Come si può pensare di privarsi di qualcosa, di non partecipare alla festa, di non godere di ciò che a tutti gli altri sembra venire così splendidamente facile e naturalmente strepitoso? Feminist Style è una linea di biancheria intima femminista. Vende mutande (12 dollari l’una) su cui è scritto: “Solo sì significa sì”; “Chiedi, prima”; “Parliamo di sesso”; “Chiedimi cosa mi piace”; “Parlami”. Un manualetto di deontologia sessuale e un monito: stai facendo qualcosa di sacro e importante, così importante da richiedere passaggi intermedi, pause, accordi. Ridicolo o ingenuo che sia, è un tentativo di insegnare qualcosa, ed è pure una spia di come il sesso venga caricato di aspettative che richiedono, per essere rispettate, l’osservanza ligia a una serie di norme. Quando in “Harry ti presento Sally” Harry e Sally si conoscono, in viaggio verso il college, lei racconta a lui di essere stata piantata in asso dal suo ex: era convinto che la mutandina con su scritto “Domenica” (ne aveva una per ogni giorno della settimana) l’avesse dimenticata chissà in quale letto. E invece, semplicemente, non ce l’aveva, “perché la domenica è il giorno del Signore”.