Demagogia del Nyt sulla moda italiana
Le sfilate a Milano e l’accusa di lavoro nero. E’ solo l’1 per cento, e i cattivi altrove
Una volta ogni dieci anni, dalle pieghe della moda che applica il moltiplicatore del 6.0 alla propria produzione esce una qualche inchiesta antipatica. Dal New York Times, una qualche indagine contro la moda italiana esce una volta all’anno, e sempre in periodo di sfilate. Questa volta è successo che un articolo sulle sarte e le ricamatrici pugliesi che cuciono cappotti e ricamano vestiti per produttori terzi di brand come Max Mara, Fendi e Vuitton a cifre comprese fra i 90 centesimi e i 2 euro al metro (o all’ora, a seconda) sia uscito nelle stesse ore in cui a Milano sfilavano due fra i brand citati, generando una eco antipatica ma – soprattutto – spropositata e fuorviante.
Che il lavoro nero rappresenti una voce non ininfluente nell’economia del sud Italia è un fatto. E’ però altrettanto evidente che la moda abbia da tempo aumentato i controlli nei confronti di terzisti e façonnisti e che la “zona grigia” rappresenti circa l’uno per cento del lavoro complessivo nel settore: circa duemila persone su centoventimila: “Oltre alla questione etica, i pochi euro risparmiati non ripagano certo il danno di immagine”, dice il presidente della Camera della Moda, Carlo Capasa, di suo pugliese e in generale molto seccato contro questo “attacco strumentale e demagogico”. Proprio l’altro ieri, alla presentazione della seconda edizione dei “Green Carpet fashion awards”, i premi alla moda sostenibile, raccontava del progressivo annullamento del lavoro nero. Ora medita di portare in tribunale il New York Times.