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Ai Millennial piace l'appartamento condiviso, che non è più da fuorisede

Simonetta Sciandivasci

Dividere lo spazio domestico con degli sconosciuti sta creando uno stile di vita. Una generazione di coinquilini

Roma. Una poltrona per due, un appartamento per parecchi di più e i millennial eccoli qua. Tutti vogliono l’appartamento condiviso, quello che negli anni Novanta era il posto migliore in cui trascorrere gli ultimi anni prima di diventare adulti con famiglia (in tutto il mondo occidentale lo si sognava identico a quello di Friends: pensate al trauma dei poveri fuori sede italiani, quando si trasferivano a cercar casa a Roma, tra la Tiburtina e San Lorenzo, dove il massimo del lusso era la singola affacciata sul pozzo luce). Ora che la transizione fa parte della vita stanziale, in quell’appartamento si vuole (si deve) vivere a tempo indeterminato. Gli ultimi dati del Pew Research Centre dicono che circa il 32 per cento della popolazione adulta statunitense vive oggi in case condivise. La tendenza ha cominciato ad assumere dimensioni notevoli a partire dalla crisi del 2008: da allora, però, alle ragioni pratiche ed economiche si sono unite quelle di un modo di vivere tutto nuovo, costruito non più attorno a un nucleo familiare ristretto, ma a uno più largo e, spesso, frutto di incontri casuali (spesso, poi, negli appartamenti condivisi vivono anche coppie di fatto o persino sposate). Dividere lo spazio domestico con degli sconosciuti resta sì una scelta obbligata dalla necessità, ma sta creando uno stile di vita che racconta di un adattamento all’altro e di una disponibilità nei suoi confronti che, almeno un po’, smentisce quanto, dei millennial, ci viene raccontato (che siano allergici all’interazione con il prossimo, indisponibili al ridimensionamento di sé e dei propri spazi, disinteressati agli sconosciuti e a ciò che non conoscono, allevati come sono a confrontarsi dentro bolle confermative).

 

Il modo in cui questa generazione abita, la esercita e l’abitua all’incontro assai più di quanto non facciano quasi tutte le altre esperienze del quotidiano. Succede negli Stati Uniti, ma pure nel resto dell’occidente: chi di noi non conosce ultratrentenni che, con i propri coinquilini, crea piccole e persino funzionali famiglie? Certo, gli italiani sono restii a vederci del buono, ancora affezionati all’idea di investire nel mattone e di goderselo da soli, con una famiglia allegra o in allegra solitudine, tuttavia l’acquisto della casa ha smesso di primeggiare nelle priorità di chiunque. Nelle cerchie affettive dei giovani di mezzo mondo il/la coinquilino/a è più frequente del/della fidanzato/a, tant’è che è diventato un genere letterario e libresco – l’Atlantic riporta titoli su come sopravvivere al proprio coinquilino (manualistico) e racconti di amori tra vicini di stanza (chick-lit) – e pure una nuova fonte di nevrosi (mica facile adattarsi alla condivisione degli spazi domestici con degli sconosciuti) e, ancora, nuovo scopo di ricerca online (esistono specifici gruppi dove ci s’incontra per scegliersi e prender casa insieme).

 

Ha scritto il Financial Times che una generazione che non solo vive in spazi condivisi ma che, quegli spazi, li mette pure a disposizione per stranieri e turisti (stiamo parlando di AirBnb) è un buon – e inaspettato, di questi tempi – antidoto a razzismo e xenofobia che ci potessimo augurare. L’altro dato affascinante è il disinteresse verso la proprietà privata, che nell’acquisto della casa aveva la sua apoteosi: qualche mese fa, su Bloomberg, si prevedeva la “morte dell’abbigliamento”, cioè la scomparsa progressiva e inesorabile dell’acquisto di vestiti dalle abitudini di spesa dei giovani. Se non ci interesserà comprarci da vestire, figuriamoci da abitare. Spenderemo in viaggi, esperienze, sport, benessere, buon cibo, buon vino. Spenderemo per carpire l’attimo.

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