Chimamanda Ngozi Adichie

Non sono un'ideologa, ma una scrittrice: Adichie si smarca dal #metoo

Simonetta Sciandivasci

La scrittrice, icona del femminismo contemporaneo: “Non sopporto più la letteratura ideologica, dove i personaggi fanno sempre la cosa giusta: la letteratura ha a che fare con la vita e nessuno nella vita fa la cosa giusta” 

Roma. Chimamanda Ngozi Adichie è la scrittrice icona del femminismo contemporaneo, il santino di Beyoncè, quella che ha scritto che tutti dovremmo essere femministi e come e in che senso, e pure come dovremmo crescere una bambina femminista (in quindici mosse). Da tutte meno che da lei ci saremmo aspettati che mettesse in fila i se e i ma da allegare al sostegno al #metoo e, forse, proprio per questo, ha potuto farlo.

 

“Se riconosci una sfumatura, rischi che il movimento crolli”, ha detto a Vulture spiegando che il movimento delle donne è ancora troppo acerbo per fare distinzioni, per sottilizzare, per non indulgere nel manicheismo e riconoscere che tutti i colpevoli hanno delle attenuanti e che quelle attenuanti sono le congiunture, il tempo, lo spazio. Non si tratta di una semplice constatazione dello stato dell’arte di un movimento: è l’ammissione di un disagio, di una impossibilità di occuparsi della realtà – e del suo racconto e della sua decodificazione – in modo non ideologico, in favore, però, di qualcosa in cui si crede.

 

Vorrei essere letta come una scrittrice e non come un’ideologa femminista, perché non sopporto più la letteratura ideologica, dove i personaggi fanno sempre la cosa giusta: la letteratura ha a che fare con la vita e nessuno nella vita fa la cosa giusta”: sta parlando la stessa intellettuale che ha proposto una definizione di femminismo attuale – “reclamare la propria importanza” – e stilato un elenco di indicazioni su come allevare una prole femminile emancipata (un piccolo esempio: “Non chiamare mai tua figlia principessa, ma falla truccare se lo desidera”) e che, tuttavia, ora, nella stessa intervista, propone di infondere nei bambini maschi un sentimento di vergogna tutte le volte che quelli danno prova di sentirsi invulnerabili (se la mascolinità tossica è costruita sulla vergogna della vulnerabilità, bisogna rovesciare i termini di questa dinamica).

 

Uscire dalla prescrizione è difficile anche quando ti si rivolta contro e ti strozza e ti impone di bandire la complessità: è un risultato del nostro tempo. Dice Adichie che il #metoo ha ottenuto un solo risultato: ha potenziato la credibilità delle donne, ha obbligato il mondo ad ascoltare le vittime. Quello che, invece, il #metoo non è riuscito a fare è stato dimostrare che una donna “non deve essere perfetta per ottenere giustizia” e questo perché ha proposto una narrazione manichea, dove da una parte c’era una vittima innocente (la femmina) e, dall’altra, un carnefice impenitente (il maschio). Uno dei protagonisti di un suo vecchio romanzo ambientato durante la guerra in Nigeria alla fine degli anni Sessanta (“Metà di un sole giallo”, 2006), è un uomo buono, premuroso, gentile che però, alla fine del libro, prende parte a uno stupro di gruppo: quando Vulture le domanda se oggi lo scriverebbe ancora – e glielo domanda specificando che “esprimere compassione per qualcuno che ha commesso violenza è ormai un tabù” – lei risponde di sì, proprio perché ciò che più non sopporta del #metoo è la sua generalizzazione, la sua incapacità di mantenere intatto un principio sacrosanto: la distinzione delle singole persone dalle tendenze, dagli schieramenti.

 

Si deve credere nella redenzione “anche se alcune persone non sono riscattabili”. “Quel personaggio non si sarebbe mai macchiato di stupro se non si fosse trovato in guerra”, ha detto. Quando Isabella Rossellini, qualche mese fa, ha raccontato di essere stata violentata e di non voler dire il nome del carnefice, avendolo perdonato, ha detto la stessa cosa: “Lo fece perché la cultura dalla quale proveniva glielo faceva sembrare naturale”. Quando il #metoo postula la credibilità coatta delle donne e la colpa automatica degli uomini, invece, ragiona all’opposto e, nel farlo, rende impraticabili non solo le sfumature ma pure l’esercizio del dubbio e del principio di realtà. Si tratta di una critica assai pacata ma sostanziosa e sostanziale: la stessa che al movimento è stata fatta da chi gli era esterno, e per quel motivo era stata rigettata. Ora che a parlare è un’interna, forse qualche salutare scricchiolio comincerà a diventare eco.