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Per migliorare l'efficacia della democrazia affidiamoci alle macchine

Antonio Pascale

La nostra straordinaria fiducia nell’essere umano si scontra con i nostri limiti. Una proposta paradossale

Vogliamo affrontare una questione spinosa? Siamo davvero sicuri che la democrazia sia un’efficace forma di governo? Se la risposta è sì vuol dire che nutriamo fiducia negli esseri umani, dunque attribuiamo a noi stessi alcune qualità (libero arbitrio, capacità comparative e analitiche, insomma razionalità) indispensabili per lo svolgimento della pratica democratica. In caso contrario non possiamo pubblicizzare la democrazia. Certo se nutriamo sfiducia, allora tendiamo a preferire vecchie e usurate forme di governo, non so regimi autoritari, elitari, tecnici, esperti, ecc. E tuttavia il problema non è il popolo, l’élite, il dittatore, il monarca, illuminato o meno che sia. Il problema è il nostro cervello davanti alla complessità crescente. Ci sono valide ragioni per ritenere che, appunto, il nostro cervello non sia più in grado di confrontarsi e dunque analizzare le informazioni processate dalla modernità. Orsù, non siamo timidi, andiamo diritti e sinceramente al punto: non ce la possiamo fa’.

 

Prendiamo per cominciare due numeri, 150 e 7 miliardi e 400 milioni.

 

Il primo è il cosiddetto numero di Robin Dumbar, antropologo inglese, il secondo sono gli abitanti (per ora) del pianeta Terra. Dumbar ha calcolato quante sono le persone con le quali il nostro cervello è abituato a interagire: solo 150 persone. Questo numero – sembra strano – è rimasto costante attraverso i millenni. Il nostro cervello, cioè, si è evoluto per processare informazioni generate da una fonte molto piccola. E invece la modernità e la svolta tecnologica hanno imposto altri numeri. 

 

Giusto due esempi, conseguenziali, diciamo così, propedeutici. Prendiamo il commercio internazionale. Se generazioni fa il livello di autarchia era molto alto, oggi il livello di specializzazione raggiunto è senza precedenti nella storia dell’umanità. Il commercio internazionale di un paese come il Belgio è uguale al commercio interprovinciale delle province come Venezia/Treviso. Prendiamo un prodotto tipico italiano, un formaggio. Possiamo ritenere che quel formaggio tipico, vocato al quel territorio, sia prodotto da 150 persone, tutte italiane? Le vacche sono acquistate come manze in Francia, e magari sono state ingravidate con seme di torno americano e canadese. Il latte viene prodotto con erba medica in parte spagnola e mangimi (soia e mais) in buona parte di provenienza oltre oceano. I concimi sono di produzione francese o svizzera o canadese, la sala di mungitura è un prodotto (eccellente) automatizzato che nasce dalla competenza di una larga squadra di lavoro. E nelle stalle ci stanno indiani e bengalesi (uno slogan progressista potrebbe essere: abbraccia un indiano). Insomma anche il formaggio tipico è un prodotto complesso, richiede più di 150 teste: quindi ci confrontiamo con milioni di persone anche se ci limitiamo ad assaggiare un prodotto tipico, figuratevi altri prodotti e altre questioni più raffinate e complesse. E allora come la mettiamo? Se abbiamo 150 persone in testa, ce la possiamo fare a governare noi stessi nel mare magnum della complessità? Quelli di noi che amano Platone tenderanno a dire di sì, nonostante tutto sì: l’uomo nasce libero e dunque dobbiamo essere felici. La felicità si raggiunge facendo delle buone scelte e lo strumento per valutare le scelte è uno: la ragione. Quelli di noi, invece, che sono convinti che no, non ce la possiamo fare credono che la ragione conti molto poco. A parte che davanti a un mondo complesso non abbiamo tempo modo e voglia di usarla. Ma c’è dell’altro. Non è detto che possediamo il libero arbitrio, almeno non a sufficienza per una buona valutazione. Agiamo a nostra insaputa, per citare il bel libro di John Bargh, (“A tua insaputa”, Bollati Boringhieri) – il che giustificherebbe quel politico che comprò casa a sua insaputa. E’ un problema strutturale, molto serio e di difficile risoluzione: diciamo così, valutiamo quello che è sul palco, perché su questo concentriamo i riflettori della nostra coscienza, e – grave errore – non consideriamo mai l’influenza del dietro le quinte. La narrazione o almeno l’idea di narrazione (classica) che portiamo avanti aiuta a cadere in questo tranello. Su una scala di 10 punti noi scegliamo, faccio per dire, il punto numero 5, solo perché accade qui e ora, si svolge nel presente. Ma è solo un punto generico, appunto, quello sui cui, momentaneamente, la nostra consapevolezza può accedere attraverso i sensi. Ma dietro le quinte, tutto si muove. Su quella scala da 1 a 10 sono attivi tutti i punti e uno condiziona l’altro. Il problema che tendiamo a sottovalutare o ignorare quel condizionamento. Si chiama – ci dice Bargh – effetto carry-over: i pensieri, i desideri, gli obiettivi, le speranza legate a punto 1 sulla scala non svaniscono, non c’è un interruttore che accende il punto due dopo aver spento il punto 1, al contrario il punto 1 lascia un residuo di influenza sul successivo e così via. Noi però e per varie ragioni ci concentriamo sul punto 5. Crediamo di poter esercitare un domino a partire da quello.

 

Esempi? Quante ne volete e tutti dimostrano che non ce la possiamo fare da soli. Test: che ne pensate dell’immigrazione? I progressisti sono più favorevoli i conservatori meno. Immaginate – è un esperimento sociale di Bargh – che siete a Yale e prima vi ricordano (con volantini e annunci) che c’è l’epidemia influenzale, abbastanza virulenta, poi vi chiedono pareri sull’immigrazione. Chi è vaccinato e si sente al sicuro esprime parere favorevole, chi non è vaccinato (si sente esposto alla minaccia virale) esprime parere sfavorevole. Perché è vero che siamo colti e sappiamo, razionalmente, che gli immigrati non portano certo le malattie ma non basta mica: perché quello che conta non è il punto 5 della scala, cioè, nell’esempio suddetto, il questionario sull’immigrazione. Non conta ciò che pensiamo sul prossimo, sull’altruismo, il razzismo, quello che ci influenza sono i punti dietro le quinte, ci guidano a nostra insaputa: nella fattispecie, quei punti sono il nostro passato evolutivo. Il nostro impulso primario, ossia, il bisogno di protezione e di integrità, quel bisogno, quell’istinto insomma sta parlando in nostra vece, noi siamo solo comparse, una voce da lontano ci guida. Poi la coscienza razionale trova la giustificazione a quel tono. E’ inquietante vero? Sì, pensiamo che nei salotti civili possiamo far sfoggio di civiltà e decenza e poi siamo condizionati dalla ripugnanza, tanto da influenzare la nostra morale. C’è uno che ruba perché è poveri. Che ne pensate? Se siete in una stanza sporca pensate che ha sbagliato, se siete in una stanza pulita pensate che è giusto. A volte, la semplice esperienza di tutti i giorni come tenere in mano una tazza di tè o caffè caldo ci porta a essere più (caldi) altruistici. Ora, prendete questi esempi amplificateli attraverso i media, otterrete nella maggior parte dei casi un concentrato di pregiudizi e falsità. Ma tutti i fake diventano veri perché confermano i nostri istinti innati. Si fa presto a dire che gli autori televisivi, i giornalisti ecc devono essere responsabili e quindi lavorare per demolire gli stereotipi perché i suddetti attivano istinti ancestrali e questi attivano stereotipi. Circolo vizioso, tutti noi subiamo alla fine influenza e condizionamenti.

 

Quindi, a) siamo portati a concentrarci su un punto e lo raccontiamo (solo il presente è vero) ma ignoriamo i condizionamenti che ci hanno portato a quel punto; b) non siamo coscienti di quei punti eppure sono molto potenti perché vengono dalla forza del passato; c) siamo fatti per 150 persone e ogni giorni ci confrontiamo con 7 miliardi e 4 di cittadini. Come possiamo fare ad affrontare il mondo con questo cervello così fallace? Ci sono varie ipotesi di lavoro e tutte nascono dalla straordinaria fiducia che in fondo nutriamo per gli esseri umani e per l’altruismo che ci contraddistingue. Eppure, altri sono più netti, dicono: non ce la possiamo fare, la democrazia collasserà. Dunque, la risposta è smettere di credere nell’essere umano e farci aiutare dalle macchine. E’ inutile fare ironia sugli algoritmi, la biologia ci dice chiaramente che le nostre cellule sono algoritmi, processiamo informazioni. Il problema è che le processiamo male. Possiamo però costruire algoritmi più efficienti. E diventare post umani. Esempio. Siamo sicuri di votare secondo coscienza e dopo accurata analisi delle scelte politiche. Oltre alle fallace e alle influenza inconsce di cui sopra, sappiamo che valutiamo le circostante secondo la regola del picco/fine. Cioè il nostro sé esperienziale, ogni minuto mappa il nostro corpo e ci fa sentire la reazione all’ambiente circostante. Non potremmo tuttavia vivere solo con il sé esperienziale. Troppe informazioni. Ci vuole il sé narrante. Che di solito fa la media delle sensazioni e adotta la regola del picco/fine. Per creare così una storia si ricorda del momento di picco (di piacere e di dolore con le varie gradazioni) e del risultato finale. La regola picco/fine è stata scoperta per caso (e teorizzata da Kahneman e Redelmeier), analizzando la risposta dei pazienti alla colonscopia. Che è una procedura fastidiosa. Infatti i medici volevano sapere cos’era meglio per il paziente. Un’esecuzione rapida che causava maggior disagio ma in un tempo più breve, oppure una lenta e delicata? Non resta che organizzare un test: chiedere ai pazienti di descrivere l’intensità del dolore ogni minuto basandosi su una scala del dolore, 0 (nessun dolore) 10 (dolore insopportabile). Bene, la valutazione complessiva non risultava dalla somma dei singoli minuti, ma si basava, appunto, sulla regola picco/fine.

 

Se gli ultimi minuti erano stati meno dolorosi, rispetto a quelli precedenti, ebbene quel momento finale faceva media. La politica? E le altre cose? Anche lì vale il picco/fine. Ci ricordiamo di quella volta in cui Berlusconi, Monti, Renzi, Salviani, Di Maio ci hanno davvero fatto innervosire. Poi però sul finire della campagna elettorale Berlusconi, Monti, Renzi, Salvini e Di Maio hanno detto una cosa che ci ha convinto e allora alziamo la media. Noi votiamo così, scegliamo così, perché i nostri algoritmi temprati dall’evoluzione funzionano in questo modo. Hai voglia di mettere su complicate analisi politiche, chi le legge? Sono tutte questioni ex post, non certo il motore primario. Picco/fine, altro che dettagliata analisi costi benefici. Meglio inventare un’applicazione che lavora per noi e sceglie per noi, oggettivamente. Perché ci conosce meglio di noi. Da quando siamo nati, esamina e controlla ogni cosa, le mail che scriviamo, le chat che componiamo, conosce il nostro Dna e sa quali geni sono più incisivi. Magari abbiamo poca propensione al rischio o ne abbiamo troppa e nell’uno o l’altro caso sbagliamo approccio. La nostra applicazione ci dirà: guarda vuoi votare Berlusconi/ Monti/ Renzi/ Salvini/ Di Maio. Ma attenzione perché stai seguendo la regola del picco/fine, e quindi dai retta a me: ho letto tutto quello che hai scritto, ho monitorato la tua rabbia e la tua soddisfazione in questi anni, ho escluso alcune tue sensazioni perché inquinanti, ti dico che i tuoi geni amano il rischio e quindi ti butti a destra/sinistra, sposi le idee politiche di questo o quello, ma attenzione, stai sbagliando: i dati dicono altro. Lo so che adesso non mi darai retta perché senti di doverti buttare a destra/sinistra ma so, so anche questo, che i tuoi geni ti stanno portando (visto e considerati i dati) dalla parte sbagliata. Seguimi, farai le scelte giuste e sarai felice. Questo penso sugli esseri umani e sulla democrazia, ma è probabile che la mia riflessione stia stato condizionata dagli ormai insopportabili talk-show televisivi: comunque ragione in più per smettere di essere umani e inquinati e affidarci alla macchine e non ai dibattiti televisivi.

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