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Per Amnesty fare controlli anti-terrorismo islamico fra gli islamici è razzista

Antonio Gurrado

Un rapporto dell'ong accusa la polizia belga di discriminazione razziale nelle perquisizioni delle persone sospette. Ma ogni democrazia si è sempre difesa sulla base di un solo principio: ogni uomo è diverso dall'altro

Mettetevi nei panni di un poliziotto incaricato di vigilare che non si verifichino atti di delinquenza o, peggio, di terrorismo: dovendo effettuare un controllo, fermereste una pallida vecchina che ha appena ritirato la pensione o un ventenne magrebino che sfreccia in motoretta? La teoria vorrebbe che li controllaste entrambi. Ciò non solo garantirebbe infatti la massima sicurezza mettendovi al riparo dall’evenienza che la vecchina sia un abile trucco per distrarvi, sapendo che di fronte a lei abbassereste le difese, quando magari è una scippatrice sotto copertura; soprattutto vi consentirebbe di comportarvi con la massima equità nei confronti di due individui che, fino a prova contraria, vanno entrambi considerati innocenti e fra i quali non potete praticare una discriminazione legata né all’età né al sesso né alla fede né tampoco all’etnia. In base a questa teoria Amnesty International ha pubblicato una relazione successiva a un’indagine condotta fra decine di poliziotti belgi, accusati di praticare su vasta scala la profilazione razziale ossia, in parole povere, di ricorrere al criterio della razza per selezionare obiettivi da controllare “senza un motivo oggettivo o ragionevole”. "E' vero, faccio profilazioni su base etnica – ha ammesso uno degli agenti intervistati dall'ong – ma non vedo come potrei fare il mio lavoro in altro modo. Senza discriminare non potremmo mai arrestare nessuno". Il ministro dell'Interno belga, Jan Jambon, si è affrettato a reagire dichiarando che nessuno si è mai opposto come lui alla profilazione razziale e che “se sono stati commessi degli errori, contiamo sul controllo sociale interno per correggere la situazione ove necessario”.

  

Come tutti gli uomini di governo, il ministro Jambon si trova nell’insolubile dilemma di essere consapevole che certe linee teoriche non possono essere sconfessate anche se, calate nella pratica, stentano a funzionare. Per quanto odiosa possa essere la profilazione razziale, è un dato di fatto che i poliziotti non possono controllare tutti i cittadini allo stesso modo. Qualora infatti decidessero di effettuare controlli volti a eliminare il minimo rischio di delinquenza o terrorismo, dovrebbero sottoporvi tutta la popolazione, con risultati ben magri in quanto paralizzerebbero la vita civile e soprattutto impiegherebbero un tempo infinito a compiere un’azione preventiva che dovrebbe basarsi anzitutto sulla rapidità. Scartato l’estremo opposto che garantirebbe comunque pari condizioni a tutti i cittadini – ossia non controllare mai nessuno per essere sicuri di trattare tutti alla stessa maniera – resta la possibilità di affidarsi alla sorte e controllare, ad esempio, una persona ogni dieci o ogni cento in base a un computo rigidamente casuale. In questo caso la perfetta parità di condizioni a cui i cittadini verrebbero sottoposti finirebbe per risultare comunque poco efficace, in quanto il criterio di selezione non varierebbe in presenza di una maggiore verosimiglianza di delinquere, lasciando scappare dalle maglie troppi pesci pericolosi ma fortunati.

  

La verosimiglianza è appunto il muro contro cui s’infrange ogni teoria egualitaria. Pur accettando in linea di principio l’idea che tutti gli uomini siano uguali, la tollerante democrazia occidentale ha potuto perpetuarsi e salvaguardarsi soltanto accettando che ogni uomo sia diverso e regolandosi di conseguenza. Ciascuno di noi differisce dall’altro per mezzo di determinate caratteristiche che lo rendono più o meno credibile se immaginato a compiere un’azione o il suo contrario; l’incrocio di queste caratteristiche, potenzialmente in numero infinito, dovrebbe generare un singolo ritratto basato su ciò a cui siamo più propensi. In linea teorica non funziona, perché ovviamente ciascuno di noi ha qualcosa che sfugge alla nuda elencazione di dati, ma nella pratica aiuta. È il criterio in base al quale scegliamo amici e partner, evitiamo certe stradine, saliamo su un vagone anziché su un altro, e così via. Per quanto egualitari possiamo essere, quando adottiamo comportamenti concreti al di fuori dei proclami schematici diventiamo tutti dei profilatori compulsivi.

  

Lo stato ha il dovere di difendere i cittadini non solo punendo i crimini ma anche prevenendoli. Poiché non è dato prevedere il futuro, l’unica strategia sensata è affidarsi ai precedenti e cercare di capire in quali condizioni determinati azioni delinquenziali o terroristiche sono più verosimili. È il motivo per cui le pattuglie della polizia effettuano più alcol test al sabato sera che al martedì mattina, per esempio, e per cui pochi blitz anticamorra vengono organizzati al Polo Sud. È ovvio che qualche ubriaco al volante che corre in ufficio ci sarà pure, e magari fra i pinguini si annidano boss irrintracciabili, però il rischio di lasciarseli sfuggire è meno probabile del rischio che comporterebbe l’omettere di cercarli lì dove è probabile trovarli per il solo gusto di non apparire discriminatori. Allo stesso modo sarebbe irresponsabile non condurre controlli anti-terrorismo islamico fra gli islamici per timore di passare per razzisti. Ciò non significa che la profilazione sia infallibile, anzi, uno dei suoi effetti più deleteri è che, quando viene esercitata stabilmente, le persone che rientrano nella sua selezione finiscono per comportarsi in maniera più sospetta proprio perché sanno di essere osservati come potenziali sospetti. Il punto è però che la verosimiglianza – un calcolo anticipatore su cui l’uomo regola costantemente la propria vita per intuire se un evento accadrà con maggiore o minore probabilità – dimostra l’impraticabilità dell’uguaglianza e dell’assoluta neutralità alla prova dei fatti. Quando vivremo in un mondo ideale, non avremo più bisogno di essere pragmatici.