Foto di Doug Davey via Flickr

Fuori gli scrittori dai social

Marco Archetti

Su Twitter e su Facebook, lo scrittore si riduce ormai ad assomigliare all’utente medio, al punto da mostrificarsi. Appello per salvare l’élite dalla deriva del nuovo conformismo

Alla faccia di Philip Roth, per il quale scrivere vuol dire “avere torto tutto il tempo”, nel grande generone della narrazione social sta furoreggiando un’epica a parte: quella degli scrittori che hanno ragione tutto il tempo. Questa categoria, in sé spaventosa, basterebbe a giustificare l’abbandono immediato di ogni community interattiva e un riposo restitutivo in forme ovine, pre-digitali e pre-intellettuali. Però il fenomeno ha assunto proporzioni considerevoli e dunque va studiato, se non altro per comprendere che il pericolo maggiore per le patrie Lettere, più che i non lettori, sono i non scrittori, cioè lo Scrittore Vigente, lo scrittore ormai relazionale, lo scrittore tuittarolo e instagrammatico: lo scrittore che ha così ragione, da avere – in ultimo – ragione di se stesso. Ma chi è uno scrittore?

 

Accettando la definizione di Philip Roth, lo scrittore è un essere umano non conforme, l’individualità per eccellenza. Questo fino a ieri, perché oggi lo scrittore sembra essersi trasformato in un’altra forma di vita, meno intelligente e più adeguata, meno residuale e più consensuale. Lo scrittore attivo sui social, poi, è l’elevamento all’ennesima potenza di questa debolezza: esemplare autocorrettivo a vocazione plebiscitaria e gran cacciatore di Consenso, si riduce ad assomigliare sempre di più all’utente medio al punto da mostrificarsi, abdicando a se stesso e assecondando la deriva di un mezzo che doveva essere la nostra ombra ed è – invece – la nostra radiografia. Il gioco è gioco, ma i social sono un gioco serio, ci regalano l’illusione di uno status, sono l’antologia della nostra autorappresentazione e anche il grande flusso del nostro scontento, in quanto svelano sia chi vorremmo essere, sia il modo in cui cerchiamo di esserlo. Il gioco è gioco, ma i social sono un labirinto, e il filo è difficile da trovare perché ci orientano tanto il diabolico macro-algoritmo by Zuckerberg, quanto l’ancor più diabolico micro-algoritmo che siamo noi per noi stessi. Il meccanismo è fatale: ci si approssima sempre di più all’immagine che si desidera offrire al mondo, si lavora sodo per confermarla, ma più la si conferma agli altri e più la si conferma a noi stessi, in una spirale autoriduttiva che Casanova – grande esegeta di pulsioni – sintetizzerebbe con: “A furia di ripetere una menzogna si finisce col credere che sia vera.” Il punto è: a fronte di tutto questo, lo scrittore, che fa? In virtù della sua superiore capacità di squarciare il velo delle sintassi collettive, esce immune dal trappolone? No. Perché l’autodidascalia permanente ubriaca. L’autodidascalia permanente non fa prigionieri.

 

Di questi scrittori orribili che siamo diventati si tenterà qui un catalogo in cinque categorie e per ciascuna di esse si suggeriranno usi costruttivi. Lo si veda come un servizio di pubblica utilità, Il Foglio per il sociale: un modo per ridare un senso allo scrittore che fa di tutto per negarselo.

 

Il battagliero fotogenico. Facile scovarlo: sta sempre dalla parte del giusto. Ligio alla segnaletica culturale, guarda prima a sinistra, poi a destra, quindi attraversa sempre sulle strisce, non infila sensi vietati e rispetta i limiti. Nuota nel mainstream e affluisce nel maremàgno, eppure tutti lo percepiscono “in direzione ostinata e contraria”. Paonazzo di sdegno, è in perenne offensiva: firma appelli, eroga solidarietà, lancia allarmi. L’unico vero rischio per un battagliero è quello di restare strangolato, in un groviglio laocoontico, dal guizzare delle sue stesse indignazioni. Ricordo un battagliero che, fattosi fotografare mentre firmava un’iniziativa popolare, pubblicava subito su Twitter il messaggio: “Io ho firmato. E tu?”. Al battagliero, infatti, non si sfugge: esige risposte, ti mette alle corde. Il battagliero ha marmitte emotive sempre bollenti e conficca hashtag nella coscienza collettiva. A differenza del minimalista diabetico è un portatore sano di ricorrenze che aderisce solo alle Giornate Mondiali Primarie. Retuitta spesso i propri tweet, nel caso in cui non ritenga sufficientemente comprese certe sue alzate di sdegno. “Riflettere” è l’esortazione che rivolge sempre agli altri. “Scomodo” è l’aggettivo con cui ha più dimestichezza. Le sue indignazioni sono modulari, infatti ciascuna può innestarsi a un’altra, a piacere. Avesse più senso degli affari (non ne ha, è un puro) potrebbe brevettare e vendere il kit dell’indignato, così che anche voi possiate diventare battaglieri fotogenici e inebriarvi dell’infinita intercambiabilità della Lotta social. Se l’Ingravallo di Gadda era ubiquo ai casi, il battagliero è meglio, onnipresente nello spazio e nel tempo e dotato di indignazione retroattiva, a chilometro mille e diecimila. Twitta in italiano e in inglese. E’ il Willy Fogg dell’impegno civile aerostatico.

(Uso proficuo: intossicarsi col suo fumo per riscoprire l’arrosto di Rodolfo Wilcock. “Al minimo accenno di impegno civile, mettersi a letto”).

 

Il minimalista diabetico. A differenza del battagliero fotogenico aderisce alle Giornate Mondiali Secondarie, tipo la giornata del sonno, dei gatti fulvi, del sorriso con le fossette. E’ un naïf a trazione motivazionale, un cake designer dell’anima. Il minimalista è sempre giulivo, convinto che tutto sia Bene e che tutto sia Bello, e ama molto comunicare le gioie del suo mondo rosa sorbetto. E’ orgogliosamente impolitico, salvo partecipazioni morali transitorie in caso di Grandi Eventi Spiacevoli. Il sostantivo che usa più spesso è “emozione”, anzi, si direbbe che il minimalista passi da un’emozione all’altra, meccanicamente. L’ottimismo è la sua benzina, o meglio, il suo isobutene di mais, perché il minimalista è un omino verde, un omino di saccarina. Il minimalista segna il definitivo e irreversibile passaggio dallo thaumàzein pascoliano all’illuminotecnica emotivo-tuittarola: è sempre impregnato di luce interiore e raggiante di sestessismo. La vita lo manda in innumerevoli solluccheri e ogni suo tweet è attraversato da un punto di canzonetta. Il minimalista minimaleggia a più non posso: dichiara di scrivere a mano servendosi di rustiche penne-biro e lo rivendica in mille tweet, senza trovarci nulla di strano. A ogni risposta ringrazia a vanvera i lettori per il “contagioso entusiasmo”. Depreca il culto della velocità e del personalismo da social, eppure è sempre lì, sempre sui social, una Saint Honoré a orologeria. Vitupera la falsità e posta selfie che lo ritraggono mentre, poggiato a un muro adornato di glicine, è intento a “vivere con lentezza”. Per lui tutto è “intenso”. Insegue la grande bellezza e la raggiunge. “Voglio condividere” è l’incipit in un suo post su due, ma in realtà cerca solo ratifiche alla sua profondità stuccata di glassa. Scrive: “Tutti cercano approvazione, ma chi cerca se stesso?” e ottiene 53 retweet e 215 mi piace di cercatori di se stessi.

(Uso proficuo: leggere un suo tweet e avventarsi sulle pagine dei Diari di Gombrowicz, quelle contro la poesia, contro i musei, contro i sacerdoti di bellezza.)

 

L’intelligente oracolare. L’intelligente sui social lo si riconosce perché è intelligentissimo. Ha la faccia smunta da cocchiere di biroccio funebre e scrive in un modo oscuro che nessuno capisce, eppure riceve consensi ed ovazioni a ogni piè sospinto, potendo contare su una schiera di adepti in perenne trance devozionale. Quando scrive un post, dopo le prime righe dimentica quel che voleva dire, così lo sproloquio prende il sopravvento sulle sue facoltà, in un susseguirsi di subordinate carpiate e mortali: è in piena veritativa. Godetene finché ce n’è, perché l’intelligente si assenta spesso. E quando non c’è, vuole che lo si noti. Quando non c’è, costringe il mondo a immaginarlo di spalle, come nel quadro di Friedrich, “Il viandante sul mare di nebbia”, travolto dalla spruzzaglia di frangenti immaginari e intento a dirimere i grandi nodi del pensiero, in una lotta impari tra la sua grande intelligenza e la vacuità delle cose. Aspira al seguito settario e ogni account è la succursale del suo califfato. E’ malmostoso e assertivo e discetta di tutto, fiero della propria inaccessibilità e inebriato dalla penombra oracolare in cui si rivela ogni volta che rilascia tweet misteriosi e contorti. Frivolo che odia la frivolezza, avversa il popolo e le sue superstizioni culturali, lamenta lo storytelling contemporaneo e divampa di anti-renzismo-anti-berlusconismo. Si autocertifica “in prima linea resistenziale” quanto a ricerca linguistica e si consacra monumento culturale. E’ il Sai Baba della prestidigitazione lessicale. Distingue tra “lingua di superficie” e “lingua profonda”. Dice “corpi emotivi” e “composto psichico”. Dice “ciò che è segnico non è più norma”. Dice “veicolarità del simbolico”. Ha follower che citano le sue trovate tra virgolette, sottolineando che sono “il senso-chiave del Tutto”. E’ interpretato, interrogato, trasceso, ma l’intelligente non ci casca, si concede e non si concede: il dogma dell’inafferrabilità innerva ogni byte della sua Scientology per semicolti bisognosi di Soggezione.

(Uso proficuo: usare il trampolino di un suo insostenibile post su Facebook e catapultarsi con gioia su “La prevalenza del cretino” di Fruttero&Lucentini).

 

L’egomaniaco stilista. Vero maestro di sartoria per ceti medi riflessivi: traveste di epos e di esclusività ogni momento che lo riguarda. Fotografa ogni fase di se stesso e fa continuamente sfilare il proprio lavoro davanti agli occhi del mondo. Diciamo pure che il suo vero lavoro è lavorare sul proprio lavoro: logorroico che narra sempre se stesso è sempre congruo al linguaggio collettivo ed edifica il mito glamour-intelló della propria scrittura. Sui social, a pochi mesi da un’uscita editoriale, imperversa in cinque fasi: 1) pic delle bozze con correzioni rosso-fuoco, zampilli di sangue a bordopagina della “grande ferita della scrittura”; 2) book del book, cioè iconostasi con copertina, retrocopertina e alette non appena gli consegnano le prime copie; 3) pic del libro in qualche vetrina saliente e annuncio del “book tour” di tre date, distribuite in dodici settimane; 4) diario dell’attesa del “book tour”, timori di risveglio di antiche ecchimosi poetiche ma… “non vedo l’ora di incontrarvi”; 5) gallery di se stesso in libreria, ritratto da varie angolazioni, appollaiato su una sediola mentre gesticola, ingobbito e uccellesco, attraversato dal travaglio esplicativo e rivolto a un pubblico che, chissà perché, si immagina rado. Tuttavia l’egomaniaco gode di apprezzamento perché è sempre in bilico esistenziale, la scrittura è il suo Golgota ma lui ne porta le stigmate sanguinando il giusto. Ai lettori dà sempre quel che desiderano. Spesso, su Facebook, si abbandona a manie persecutorie volte a ingigantire la portata di tutto ciò che lo riguarda. Di quando in quando avverte nell’aria presagi di ostruzione alla propria opera e in quei casi fa sentire i lettori partecipi della sua sopravvivenza sulla Barricata della Letteratura. Segnala “recensioni straordinarie” su blog culturali cui collabora l’intelligente oracolare.

(Uso proficuo: per contrappasso, immaginarlo protagonista de “Il caso Kugelmass”, convulsivo racconto di Woody Allen).

 

L’ironico impartecipe. Spicca perché non dismette mai i propri panni: cascasse il mondo, l’ironico sarà sempre ironico. Il dito indica la luna e voi guardate il dito? L’ironico guarda voi. Nel frattempo, però, guarda anche le cose, con l’occhio mite di chi ha visto tutto e tutto ha compreso. C’è un eccesso di controllo in ciò che scrive, spesso un understatement di maniera tradito da un costante desiderio di colpire per verve, però – almeno – fa sforzi lessicali, ed è uno dei pochi a nutrire il sospetto che “io” sia un pronome che possa diventare raglio. Non se ne consigliano usi proficui alternativi dato che, nella grande colata irrichiesta dei social, l’ironico costituisce tutto sommato una presenza non deteriore.

 

Per il resto, tirando le somme, il pane è bigio: gli account Twitter e Facebook degli scrittori sono un fluviale monologo di conformità, un’ininterrotta performance edificante al punto che ormai l’impegno maggiore cui si consacrano tutti sembra quello di alimentare non un’opera, ma un’interminabile didascalia cosmetica di sé. Difficile prevedere ulteriori derive: prima o poi cesserà di esistere il corpus e resterà solo la stampella?

 

Arriverà l’autodissoluzione e non avremo niente da metterci.

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