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Toh. Inizia a sgonfiarsi il piccolo-grande scandalo Volkswagen

Alberto Brambilla
Le auto compromesse in Europa sono meno del previsto ma le doglie del modello tedesco sono solo all’inizio

Roma. Lo scandalo delle centraline delle automobili Volkswagen modificate sistematicamente dall’azienda tedesca per abbassare artificiosamente le emissioni inquinanti dei motori diesel è forse andato oltre alle aspettative più fosche di molti osservatori del settore e della stessa casa di Wolfsburg. La prima casa automobilistica europea ha fatto sapere ieri e mercoledì di avere esagerato nel dire che i veicoli coinvolti dalle indagini dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente americana (Epa), che a novembre aveva messo sulla graticola l’azienda, i suoi vertici e i suoi soci, erano 800 mila in Europa. Il numero accertato dopo indagini interne al gruppo è una piccola frazione di quanto stimato: solo 36 mila auto. Il dato dovrà essere confermato dall’Agenzia  dei trasporti tedesca ma se le stime fossero corrette significa che Volkswagen dovrebbe ripagare una piccola parte dei 2 miliardi di incentivi che i consumatori europei hanno ricevuto dai rispettivi stati per acquistare automobili a basso regime – artificioso – di emissioni di gas serra. Non è usuale – almeno all’estero, qui di indagini che si sgonfiano come un soufflé ne vediamo a decine – che uno scandalo venga ridimesionato dopo degli approfondimenti anche se resta il sospetto, come fa notare il New York Times, che in fondo in quel di Wolfsburg abbiano fatto qualche pasticcio nel comunicare dei numeri peggiori della realtà con significative perdite per il titolo e quindi per gli azionisti. La portata dello scandalo del dieselgate pare sgonfiarsi, almeno per quanto riguarda i prodotti coinvolti. Volkswagen si era dunque scusata fin troppo?

 

Di certo gli osservatori avevano fatto correre la fantasia prevedendo la scomparsa del motore diesel dal pianeta terra mentre gli analisti paventavano il tramonto della casa tedesca nata nel 1937. Previsioni che forse dovranno essere ridimensionate anch’esse di fronte alle evidenze portate da Volkswagen. Tuttavia i riflessi per il settore delle indagini nate in America – dove Volkswagen già cominciava a vedere calare le vendite e dove non pare avere ancora un piano di effettiva riduzione delle emissioni in un ambiente regolatorio più severo di quello europeo – va oltre la mera contabilità delle vetture. C’è un punto che è stato sottolineato dall’amministratore delegato di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne, il giorno della quotazione di Ferrari a Wall Street e che vale per l’intera industria: i regolatori avranno sempre maggiore capacità di influenzare la gestione delle imprese automobilistiche. Volkswagen l’ha sperimentato sulla sua pelle. Il gruppo tedesco aveva appena assaporato la leadership mondiale in fatto di vendite: a luglio aveva superato – seppure di poco – la giapponese Toyota. Sembrava che l’ambizione tedesca di diventare il dominatore assoluto del mercato potesse essere a portata di mano dopo anni di operazioni di acquisizione tentacolari in vari settori (il marchio Audi, le motociclette Ducati). Sotto la leadership di Ferdinand Piëch, patron di Volkswagen discendente della dinastia Porsche messo a margine dopo una battaglia al vertice con l’ex amministratore delegato Martin Winterkorn, sembrava volesse raggiungere il massimo dell’espansione acquisendo anche il marchio Alfa Romeo da Fiat (che invece se l’è tenuto per farne il perno del rilancio del gruppo Fiat-Chrysler).

 

[**Video_box_2**]La strategia di supremazia ora pare comunque compromessa o almeno dovrà essere ripensata in senso ampio. Lo scandalo ha motivato un ricambio dei vertici, con Matthias Müller a sostituire Winterkorn, dimessosi all’indomani dell’inchiesta Epa. E soprattutto ha costretto Volkswagen a operare per la prima volta dal 2008 – era l’unica grande società a non averlo fatto – un piano di riduzione della spesa preventivata per l’esercizio del 2016, tagli per 1,1 miliardi di dollari per dare priorità solo ai progetti già pianificati ed eliminare quelli ritenuti rinviabili. Resta da vedere se le stime degli analisti in fatto di multe, spese legali e ritiri di auto in giro per il mondo (si era parlato di 40 miliardi di euro) avranno la stessa sorte di quelle delle auto sospette vendute in Europa. Ma in ogni caso per Müller e compagni le pene non sono finite, sono appena iniziate. “Siamo davanti a una delle prove più grandi della nostra storia”, ha detto ieri il presidente del consiglio di sorveglianza di Volkswagen, Hans Dieter Pötsch, uno dei pochi sopravvissuti della cerchia di Piëch. E’ infatti evidente che il problema non è la sostituzione di un motore o la condanna di un reprobo, bensì la riforma di un sistema di governance così complicato da rappresentare un caso limite. Lo scandalo ha reso lampante che la reputazione della prima società della corporate Deutschland, simbolo di quel modello renano gradito anche a queste latitudini da osservatori “left-minded”, è compromessa in modo permanente. Come ha fatto notare il professore di Storia dell’industria dell’Università Bocconi di Milano, Giuseppe Berta in un articolo apparso sul n. 6, 2015 della rivista il Mulino è la cifra novecentesca del modello consociativo amato in quel di Wolfsburg a vacillare. La ricerca della stabilità dell’impresa, scrive Berta, ottenuta attraverso la partecipazione istituzionale di azionisti di locali e politicizzati – come il Land della Bassa Sassonia che ha il 12,5 per cento del capitale Volkswagen ma con un potere di voto pari al 20 per cento, per non parlare della forza del sindacato metalmeccanico Ig-Metall che non a caso un altro azionista di peso con il 17 per cento come il fondo sovrano del Qatar ora vuole depotenziare – ha favorito innanzitutto l’interesse dei soci, dei creditori e dei dipendenti rispetto a quello dei consumatori frenando, in ultima analisi, la spinta all’innovazione del prodotto che ben si fa vedere invece negli Stati Uniti, baluardo del capitalismo moderno, con i progetti di auto senza pilota (Google Car) o dei bolidi a trazione elettrica (Tesla).

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.