Una donna al lavoro durante la Prima guerra mondiale (Wikimedia)

Sì, le donne hanno paghe più basse dei colleghi uomini, ma non si tratta di un “furto”

Rosamaria Bitetti e Serena Sileoni

Indubbiamente le istituzioni possono e devono fare molto. Ma ritenere che il sostegno alla maternità e, più in generale, al ruolo femminile sia una sorta di risarcimento per il ruolo ricoperto è qualcosa di diverso e di profondamente fuorviante

Lo dicono tutti, pure l’Onu, che le donne guadagnano meno degli uomini. Proprio in questi giorni, una nuova campagna dell’Un Woman torna sull’argomento per dire che “per ogni euro guadagnato da un uomo le donne vengono derubate di 23 centesimi”, assunto che equivale a confermare il “gender pay gap” del 23 per cento di retribuzione. Un numero che circola nei media da diversi anni, sorprendentemente immutato nonostante i moltissimi studi che danno diverse sfumature, e ripreso spesso dai politici (come Hillary Clinton, che ne fece la sua campagna salvo poi ritrovarsi in casa un significativo differenziale fra le donne e gli uomini che lavoravano per lei).

    

Al di là della percentuale, che ci sia una differenza dei guadagni è un dato: ma quale sia la sua dimensione, e quali siano le sue cause – ovvero se vi sia una discriminazione di genere – è invece da capire. La prima distinzione da fare è quella fra Gender pay gap, che implica che le donne vengano discriminate da chi le paga, e Gender earning gap, dove sono le donne a fare scelte educative e lavorative che le portano a guadagnare di meno: negli anni numerosi studi hanno dimostrato che il secondo scenario è più plausibile.

  

Se si andasse a vedere l’istruzione, la formazione, l’esperienza e le scelte lavorative (sia di cosa fare, sia di come farlo, ricorrendo ad esempio al part time anziché al tempo pieno), si potrebbe avere una risposta più precisa sui motivi del gender pay gap.

 

Negli Stati Uniti, dove c’è messe di dati a disposizione su queste questioni, secondo uno studio del 2009 del Dipartimento del lavoro, queste variabili spiegavano tre quarti del differenziale di salario del 20,3 per cento per l’anno di riferimento (2007): aggiustando per questi fattori, il gender gap orario rimanente era di circa il 5 per cento.

  

Secondo i dati ufficiali del 2013, contenuti nel rapporto del Bureau of Labor statistics, il differenziale fra il salario settimanale medio degli uomini e delle donne che lavoravano a tempo pieno (35 ore) era del 17.5 per cento, ma scendeva al 10 per cento quando le donne lavoravano 40 ore. Il che non vuol dire che il gap non esista, ma che la variabile delle ore lavorate, da sola, dimezza il divario.

     

Di solito, per esempio, le donne tendono a privilegiare lavori meno pagati ma più flessibili o più protetti – come nel caso del pubblico impiego, almeno nel nostro paese – con servizi e tutele adatti a conciliare l’attività familiare (non solo la cura dei figli); interrompono più spesso, per motivi biologici o per scelte personali, la loro carriera: per questo, tendono a essere inserite in posizioni per cui il turnover è meno costoso. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Human Resources, il minore investimento in capitale umano sulla loro formazione, insieme alla minore esperienza lavorativa, spiega gran parte del divario.

  

Senza considerare che, ancora oggi, gli studi nei settori più remunerativi, come le scienze dure, sono scelti con meno frequenza dal genere femminile rispetto a quelli in settori meno remunerativi. Secondo uno studio di Francine Blau e Lawrence Kahn, il cambiamento nelle loro scelte educative e l’aumento dell’esperienza di lavoro ha ridotto di circa un terzo il gap negli anni Ottanta e Novanta, e c’è da attendersi che si ridurrà ancora nei prossimi anni.

  

Lavorare meno, fare lavori meno pagati è, generalizzando senza tema di banalizzazioni, una scelta che deriva dal ruolo familiare della donna. In tutto il mondo, dai paesi in via di sviluppo all’Europa e agli Stati Uniti, la distribuzione del lavoro domestico non retribuito è sbilanciata nei confronti della donna. Negli Stati Uniti si è osservato come quelle che non si sono mai sposate hanno un differenziale del 4.8 per cento rispetto agli uomini (invece che il 17,9 per cento complessivo). Se si sposano, il gap sale al 12 per cento. Fra le coppie sposate con figli minorenni, le mogli guadagnano il 78,9 per cento dei loro mariti. Misurando il salario medio delle donne single (che include non sposate, divorziate, separate o vedove) senza figli con meno di 18 anni in casa, si osserva invece che guadagnano il 96,1 per cento di quello che guadagnano le loro controparti maschili.

   

E’ chiaro che la maternità e il ruolo in famiglia delle donne siano la principale causa della differenza retributiva. E anche chi, come l’Onu, parla di furto e discriminazione individua nella destinazione e/o vocazione familiare delle donne l’origine della differenza di trattamento. Tuttavia, non è che le donne siano trattate diversamente. Più semplicemente, sulle loro spalle grava il peso di decisioni consapevoli. Le donne di oggi, almeno in questa parte di mondo, possono scegliere. E ogni scelta ne scarta altre.

  

Parlare di furto sottintende che ci sia un maltolto che qualcuno debba restituire. Chi usa questi termini, non a caso, vuole politiche attive e azioni positive per eliminare il gap. Indubbiamente le istituzioni possono e devono fare molto. Possono e devono facilitare l’adempimento delle incombenze che di norma gravano sulle donne (avete mai provato a fare un cambio pediatra? O a parlare con qualcuno dell’Inps per avere chiarimenti sui congedi di maternità?). Ma ritenere che il sostegno alla maternità e, più in generale, al ruolo femminile sia una sorta di risarcimento per il ruolo ricoperto è qualcosa di diverso e di profondamente fuorviante. Quanto questo ruolo sia frutto di stereotipi e (cattive) abitudini, quanto dipenda dalla natura anziché da consuetudini talmente sedimentate da sembrare naturali, è sicuramente una questione importante, su cui si può e si deve riflettere. Ma non cambia i termini della questione: il gender pay gap non è un furto. Non è qualcosa che si può cancellare o risarcire a colpi di legislazione. Sarebbe molto semplice se fosse così. E’ invece la complessa conseguenza di ruoli diversi, sempre meno diversi eppure ancora diversi. Ruoli che possono essere messi in discussione ma che, almeno dalle nostre parti, le donne hanno la libertà, una per una, di scegliersi, di accettare, di provare a cambiare. E questa, in fondo, è stata la vera grande emancipazione femminile che oggi raccogliamo in eredità.

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