Wilt immerge nell'acido il perbenismo con piena empatia per le miserie umane

La recensione del romanzo di Tom Sharpe, nell'unica rubrica che vi dice come parlare di libri (senza perdere tempo a leggerli)

Andrea Ballarini

Shottini è un'idea di Andrea Ballarini. Video e editing di Enrico Cicchetti


 

Circolano un sacco di luoghi comuni sull’umorismo degli inglesi, soprattutto presso noi popoli latini, e particolarmente noi italiani, che siamo più abituati alla comicità, magari anche alla commediassa, che alla raffinata ironia. Ma la realtà, si sa, è quasi sempre più sfaccettata dell’idea che ce ne si fa. Infatti l’autore di cui parliamo oggi è uno dei più sfrenati, sboccati, feroci e sulfurei umoristi che mai abbia visto la letteratura contemporanea. Stiamo parlando di Tom Sharpe.

  

Tom Sharpe è nato nel 1926 in Inghilterra e morto nel 2013 in Spagna, dove si era ritirato. Un personaggio singolare, laureato in Antropologia a Cambridge, per undici anni è vissuto in Sudafrica, da cui poi è stato espulso per attività antigovernative, perché avversava l’apartheid. E già ci sta simpatico.

  

Il libro di cui parliamo oggi è “Wilt”, uscito nel 1976 e apparso in Italia per Longanesi nel 1982 con il titolo “Eva, una bambola e il professore” e, per fortuna, ripubblicato nel 2016 da Elliot con il suo titolo originale. Peraltro nel 1989 è stato anche realizzato un film molto inglese che da noi non è mai arrivato.

   

Wilt è un professore di inglese che insegna in una scuola frequentata da esponenti delle classi più popolari della Gran Bretagna, cioè un ambiente agli antipodi di quello ultra raffinate rarefatto delle public school inglesi, dove le uniche attività a quanto pare erano diventare spie per la Russia o essere implicati in scandali sessuali. La frequentazione delle classi popolari negli anni ha fatto sì che Wilt sviluppasse una visione molto disincantata della vita e degli uomini (e qui forse si sente l’antropologo in Sharpe) ben riassunta nella frase che è riportata sulla quarta di copertina del romanzo: “L’uomo che aveva dichiarato che la penna è molto più potente della spada avrebbe fatto meglio a provare a leggere Il Mulino sulla Floss a una classe di futuri meccanici prima di aprir bocca.”

   

Wilt ha una moglie, Eva, smodata, sovrabbondante in tutto, nel giro vita come nell’appetito esistenziale. Eva è avida di sensazioni, emozioni e desiderosa di affrancarsi dalla vita di un modesto professore, così dopo averlo a lungo rimproverato di non avere ambizioni, a un certo punto lascia Wilt (ma solo per un po’, infatti tornerà a casa e la ritroveremo nei successivi romanzi della serie). Peccato che per una serie di vicissitudini troppo complicate da riassumere qui in pochi minuti, e che quindi voi non scoprirete mai, perché non leggerete il libro, proprio mentre Eva fa perdere momentaneamente le sue tracce, Wilt viene scorto mentre prima si accoppia selvaggiamente con una bambola gonfiabile che poi getta in pilone di un’autostrada in costruzione. Scambiata la bambola per una donna, Wilt è così sospettato di avere ucciso Eva. E questa è una delle scene più esilaranti che ho mai letto, ve lo garantisco.

  

Insomma, questo come tutti gli altri romanzi di Sharpe, sotto le apparenze di un racconto disinvolto e leggero, dissimula una storia che dissacra sottoponendoli a un’immersione nell’acido prussico, tutti i riti e le istituzioni, il perbenismo, la retorica e l’egoismo di una società solo formalmente ineccepibile. Ma il tocco leggiadro e pesantissimo a un tempo di Sharpe è in fondo pieno di empatia per la, a volte miserabile, condizione umana. Perché come diceva Stendhal “L’amore è un bellissimo fiore, ma bisogna avere il coraggio di coglierlo sull’orlo di un precipizio”.

 

WILT
Tom Sharpe, Elliot, 251 pagine

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