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Diario di scuola

E' finita: cinque anni di scuola e l'esame di maturità sono raccolti in un cubo cieco fatto di carte

Marco Lodoli

Dopo giorni di prove scritte e orali, si svolge un rituale che perdura nella volatilità tecnologica del presente: il passato viene tumulato nel Pacco e solo così si conclude l'esame

E alla fine tutto viene chiuso nel Pacco: e lo scrivo con la maiuscola perché è un’entità superiore, fisica e metafisica, raccolta e tumulazione conclusiva di cinque anni di scuola. Il Pacco è effettivamente un pacco, ma va costruito con assoluta precisione e pazienza, perché deve contenere tutti i documenti dell’esame di maturità (mi piace chiamarlo ancora così, Esame di Stato mi mette un po’ di angoscia), cioè una quantità smisurata di carte che certificano cosa è avvenuto, come gli studenti si sono presentati alla prova finale dopo il loro lungo percorso e come sono stati giudicati. 


E’ un’operazione delicatissima, che avviene dopo giorni e giorni di prove scritte e orali, di solito a quaranta gradi, quando tutti sono spossati e un po’ rimbambiti. Ma guai sbagliare adesso, da un errore minimo potrebbe derivare una catastrofe massima, ricorsi, commissari, processi. E allora attenti, attentissimi, ogni gesto va calibrato con cura. Ovviamente ormai tutto quanto è già registrato nel computer, relazioni, voti, crediti, domande e risposte, tutto incolonnato, organizzato, memorizzato: ma questo non significa che sia abolita la dimensione cartacea dell’esame e di ogni minimo avvenimento. Semplicemente ogni documento si raddoppia, incorporeo nel computer, corposissimo nella carta. Due mondi paralleli che devono rispecchiarsi fedelmente, corpo e immagine, peso e non peso, e tutto diventa pesantissimo. Ogni compito va firmato da ogni componente della commissione, e lo stesso vale per le griglie della prima e della seconda prova e dell’orale, e i numeri delle somme definitive vanno ricontrollati mille volte, firmati e approvati, e tutti i verbali dell’esame – sono decine e decine – vanno riletti e firmati anch’essi. Non so quante firme avrò messo l’ultimo pomeriggio, sempre più sghembe, incerte, amareggiate, nelle quali non mi riconoscevo più.


Tutto è finito, ma niente è finito, almeno fino a quando il Pacco non inghiottirà ogni centimetro di carta: e ogni carta va bollata con il timbro di plastica della scuola. Dico “di plastica”, perché poi c’è il timbro di metallo che suggellerà l’ultima azione, la vera conclusione dell’esame. E allora dai, timbra e ritimbra, perché la burocrazia ha le sue astruse regole che vanno rispettate senza giudicare e senza modificarle in nulla. Il presidente della commissione sovraintende a tutto: si capisce che è provato, che ogni tanto perde il controllo assoluto delle operazioni, ma subito si riprende: “Quei fogli non sono stati ancora timbrati, e ricontrollate un’altra volta se avete messo le firme su tutti i compiti e le griglie…”. E intanto il povero segretario, un professore condannato a questo ruolo, scrive verbali su verbali, ripete ossessivamente le somme, sbarella ma resiste. E dopo ore e ore di immersione burocratica, si riemerge per sbattere tutto quanto nel Pacco. 


E’ un’operazione che riporta indietro nel tempo, un rito che perdura nella volatilità tecnologica del presente. Si distende su due tavoli accostati la carta, che è proprio quella carta marroncina dei pacchi del tempo passato, poi si ammonticchia al centro della carta ben spiegata la montagna di carte firmate e timbrate e controllate e sudate, poi con estrema cura si tirano i lembi, si sovrappongono, si stringe a triangolo la carta ai lati, come facevano le commesse di un’altra epoca, e poi si chiude tutto quanto. A questo punto servono mille giri di nastro adesivo per compattare il Pacco, e poi si tira fuori dalla busta assegnata alla commissione un lungo spago, una candela, un bastoncino di ceralacca, come in un film in costume. Si annoda il Pacco con lo spago, si accende la candela nella luce abbagliante e malinconica del pomeriggio inoltrato, si scioglie la ceralacca e la si fa sgocciolare sul nodo, tac tac, le gocce cadono bollenti, si aggrappano al nodo, e ora, prima che si raffreddino, bisogna pressarle col timbro di metallo, “presto, presto! Spingi forte, dai!”. 
Ecco, il Pacco è fatto, la tomba è chiusa, cinque anni di scuola e l’esame finale sono raccolti in quel cubo cieco. Il passato è definitivamente passato. Tutti noi insegnanti guardiamo quel monolite che troneggia in mezzo alla classe, perfetto e misterioso come quello di Kubrick. Chissà dove finirà? In qualche cantina, nel buio di un deposito, nel nulla affollatissimo delle carte perfette e inutili, nel museo degli sforzi sprecati, nella parete di qualche labirinto…

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