(foto LaPresse)

L'economia da rilanciare è quella della conoscenza

Lucio D'Alessandro

Il dibattito sulle opportunità legate al Recovery Fund europeo sarebbe più centrato se tenesse nel debito conto la sua esplicita destinazione: Next generation EU

Il dibattito politico e pubblico sulle opportunità legate al Recovery Fund europeo sarebbe più centrato se tenesse nel debito conto non soltanto la definizione dello strumento finanziario (il “fondo di recupero”) ma la sua esplicita destinazione: Next generation EU. Dall’Europa è giunto infatti forte e chiaro il richiamo a un investimento comune massiccio in conoscenza e formazione quale vero asset strategico per la ricostruzione postpandemica. D’altra parte già nelle sue Vorlesungüber Politik del 1833 una grande voce europea, quella del filosofo tedesco Friedrich Schleiermacher, aveva mostrato – e la sua voce risuona quanto mai attuale – che lo sviluppo e la stessa “autoconservazione” degli Stati dipende dalla loro capacità di garantire la migliore formazione (Bildung) alle “generazioni future”.

 

In questa prospettiva ampia, assumono rilievo maggiore le molte riflessioni e proposte suscitate in Italia dall’appello di Ferruccio de Bortoli alla classe dirigente privata del Paese, perché si mostri “all’altezza del compito che la storia le assegna” sostenendo iniziative volte alla crescita del capitale umano. Ed è significativo che queste riflessioni si siano concentrate soprattutto, più che sul delineare iniziative nuove, sui luoghi costituzionalmente deputati alla formazione: Scuola e Università.

 

È urgente infatti restituire centralità e attenzione alla scuola perché non è solo un servizio pubblico essenziale: la scuola è l’istituzione pubblica per eccellenza sia che essa sia gestita dallo Stato che da privati, perché lì si forgiano le next generations, ossia il futuro della polis. Uno Stato che non pensi alla scuola nella prospettiva innanzi tutto degli studenti (e dunque del contrasto deciso alla povertà educativa) semplicemente non è tale; di più, non ha letteralmente futuro.

Di rilievo è inoltre la riflessione sui contenuti della formazione di una classe dirigente capace di affrontare le sfide che ci attendono: ha ragione Galli della Loggia a evidenziare la necessità di una visione culturale complessiva, non ristretta in recinti disciplinari troppo angusti. Ora più che mai è infatti necessario dotare le nuove generazioni di quella bussola che si chiama pensiero critico, vero patrimonio della nostra civiltà: e il luogo in cui si forma sono, da sempre, le Università, le uniche entità davvero glocali, vale a dire ancorate al locale – un Territorio di cui preservano l’identità – eppure sempre pronte a conquistare una dimensione globale, attraverso la rete della comunità scientifica. Caratteristica fondamentale dell’Università è infatti la capacità di coniugare, come su un piano cartesiano, lo sguardo interpretativo, che consente di leggere i mutamenti dei contesti storico-sociali in cui si trova ad agire (esemplare è stata la risposta del sistema universitario all’emergenza Covid19), con lo sguardo prospettico, che la rende capace di adeguarsi al mutamento e a partecipare attivamente alla costruzione di futuro. La “buona formazione” deriva pertanto dal punto di incontro tra questi due assi, l’interpretativo e il prospettico: solo attraverso l’interazione proficua tra solide competenze culturali di base e la bussola rappresentata da un “sapere critico” flessibile e resiliente le nuove generazioni potranno infatti vincere la sfida di far crescere i territori attraverso processi di innovazione che rispettino i principi di sostenibilità qualitativa, socio-ambientale, economico-finanziari.

 

Per queste ragioni è opportuno prestare molta attenzione ai soggetti ai quali si affida la formazione. Desta infatti qualche legittima preoccupazione la recente apertura all’istituzione di nuove università non statali, se non sarà attentamente sorvegliata, se non si verificherà cioè che i soggetti promotori non abbiano fini speculativi o di lucro, giocando sul valore legale del titolo di studio. Non vorremmo rivedere un film già visto con la scuola: molte realtà educative private serie, non di rado eccellenti, sono infatti ora in una profonda crisi poiché competono senza alcun sostegno con un sistema pubblico percepito come gratuito, mentre restano a galla i luoghi della mercificazione dei titoli, del “paghi un anno e ne recuperi tre” per intenderci. Tanto più in questo momento, non abbiamo bisogno di nuove Università concentrate solo sulla “prima missione”, la didattica, per fare profitto. Serve invece potenziare i luoghi della ricerca e del trasferimento anche tecnologico della ricerca, serve declinare quell’auspicato sforzo pubblico-privato nel consolidare la collaborazione tra i mondi della formazione, della ricerca e delle imprese, nella comune consapevolezza del fatto che solo l’economia della conoscenza può consentire di restituire crescita e competitività, partendo dai luoghi in cui la conoscenza si produce e dai loro frequentatori: i giovani, pieni di energia creativa e di slanci; la next generation, appunto.

 

È insieme forte e pregnante l’immagine adoperata, nella discussione in corso, da Claudio Cerasa, che si chiede se la classe dirigente, specie imprenditoriale, sarà in grado di rimettersi in gioco, di cavalcare le trasformazioni per uscire dalla crisi, di guidare gli “spiriti animali” del Paese. Questa immagine vitalistica si attaglia con particolare evidenza ai giovani, alla loro dinamica ed esuberante voglia di fare e di realizzare. Il rumore del futuro ha infatti il suono del rumore dei cervelli dei giovani: quel rumore di fondo che, lo ha dimostrato il neuroscienziato Lamberto Maffei in un bel libro intitolato La libertà di essere diversi, caratterizza l’attività elettrica della corteccia neuronale, che produce le invenzioni e le idee. Non sprechiamo allora questa grande opportunità. Si unisca un uso sapiente e mirato dei fondi europei che arriveranno con le migliori energie private e pubbliche del Paese per costruire insieme, nella difesa di quella Europe décadente di cui parlava in un saggio celebre Raymond Aron, una Europe renaissance.

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