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I ragazzi che la maturità l'hanno già fatta

Antonio Pascale

Perché saremo concentrati a giudicare più gli esaminatori che i maturandi

Questa sarà una strana maturità. Voglio dire, vista la serie di norme che regolano gli esami, che probabilmente saremo più concentrati a giudicare gli esaminatori che i maturandi. Nemmeno mi sembra tiri un vento da notte prima degli esami, non so dire se purtroppo o per fortuna. Non che abbia in uggia la canzone di Venditti, ma appunto per la questione Covid, almeno quest’anno, la maturità come rito di passaggio sembra sia venuta meno. Si leggono più di norme e protocolli che interviste a influencer vari o consigli su come affrontare l’esame, cosa mangiare, come rilassarsi. Retorica in meno, non guasta. E poi forse non ce n’è bisogno, magari i ragazzi sono diventati (simbolicamente) maturi prima, durante la chiusura, per il senso di responsabilità che, forse, hanno sentito verso la comunità.

 

Sia come sia, se davvero c’è del buono nelle crisi, potremmo approfittarne per tentare di rispondere a una domanda sgradevole: ma perché devo studiare? Per esperienza personale, ogni volta che me l’hanno posta, e spesso ero in zone periferiche, in qualità di scrittore, più o meno colto, più o meno informato sui fatti del mondo, avvezzo comunque alla cultura, ho risposto con frasi fatte, tipo: studiare rende liberi. Non che non ci creda, intendiamoci. Vengo da una generazione contadina, mio nonno che aveva un solo vestito (quello della festa) lo indossava non quando andava ai matrimoni o ai funerali ma quando in paese venivano i tecnici agrari. Per lui la cultura era sacra e bisognava vestirsi bene. Tuttavia non basta. Anzi, qui torniamo alla questione di cui sopra: conviene cambiare punto di vista, meglio preoccuparci di cosa e come stiamo insegnando. A volte, visto anche il clima culturale diffuso, sospetto che utilizziamo ancora strumenti ottocenteschi che sì, certo, sono stati utili a mio nonno, ma appunto erano tagliati per quel tipo di cittadino. Ci siamo affezionati, lo so, e per questo rispondiamo: il sapere rende liberi.

 

Oppure, lo studio è necessario per costruire una classe dirigente (che nel mondo ideale dovrebbe badare agli interessi di tutta la comunità e tenere insieme quelli che rischiano di rimanere ai margini). Ma poi lo sappiamo che quel vestito della festa non serve qui e ora. Medie, licei e purtroppo alcune università (soprattutto) classiche insegnano cose (o sono maggiormente diffusi quei corsi) retrò, vintage, inutili, slegate dalla contemporaneità (cioè dalle nuove acquisizioni culturali). Poi certo che ti domandi: ma che studio a fare? Se lo domandano anche i manager che selezionano i maturi, i laureati, spesso con master costosi alle spalle. Quelle competenze non sono quasi mai quelle richieste, quindi alla fine studio e lavoro non vanno insieme, si disaccoppiano. Potremmo dunque approfittare di questa crisi (se è vero che c’è qualcosa di buono nelle crisi) per assemblare un nuovo vestito della festa. A me piacerebbe rispondere: lo studio (cioè quel vestito) serve a imparare a pensare, fare buone scelte (e trovare soluzioni ai conflitti, morali, economici e sociali), cioè a costruire un paesaggio etico su valori condivisi, perché sono quelli ricavati da una conoscenza e messi alla prova. Per farlo è necessario concentrarci un po’ su cosa e come insegniamo. L’alternativa è non fare niente e continuare a dire “lo studio rende liberi” ben sapendo che ti prendi l’applauso al momento, poi le luci si spengono e tanti restano al buio.

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