Il ministro dell'Istruzione, Lucia Azzolina (foto LaPresse)

Non si può solo rimandare, serve un piano per la riapertura delle scuole

Andrea Mattozzi e Pietro Ortoleva

Pensare a soluzioni nuove, soprattutto per materne ed elementari

La discussione sulla riapertura delle scuole soffre di due vizi fondamentali: non considerare tutte le conseguenze sistemiche del prolungamento della chiusura e ragionare ricorrendo a soluzioni organizzative – e in parte categorie mentali – anacronistiche perché proprie del periodo precedente alla pandemia. Questa inerzia può avere conseguenze gravi. Proviamo a parlare di costi, tempi e soluzioni, con particolare attenzione alla scuola dell’infanzia ed elementare.

Per decidere in maniera consapevole bisogna valutare rischi dell’apertura e costi della chiusura. I rischi sono chiari: una seconda ondata di contagi fuori controllo. Si tratta però dello stesso rischio che si deve affrontare e contenere quando si progetta la riapertura di qualsiasi forma di attività produttiva. Garantire parametri di sicurezza nelle scuole è un problema da affrontare, ma rimandare senza un piano preciso non può essere la soluzione. I costi, d’altra parte, sono di varia natura. Innanzitutto, la scuola svolge un ruolo fondamentale nel creare capitale umano, essenziale per lo sviluppo economico. Forse meno noto, come mostrano numerosi studi, è che anche i primi anni di apprendimento e scolarizzazione sono determinanti per i risultati professionali futuri. Rinunciare a mesi di formazione significa rinunciare a parte del capitale umano di una generazione. A tutto ciò va aggiunto l’impatto psichico: senza la scuola o genitori che possano farne le veci, alla giornata viene meno la struttura e si riduce la socialità. Sono conseguenze che stiamo vivendo tutti, la questione è se siano da imporre ai più piccoli fino a settembre, se non oltre.

 

Un secondo aspetto si lega alle conseguenze indirette di una protratta chiusura. La scuola svolge un ruolo cardine nell’equilibrio dell’economia offrendo un luogo per i bambini mentre i genitori lavorano. Senza riaprire le scuole non è pensabile che possano riprendere molte attività lavorative. Le conseguenze sui singoli andranno dai mancati stipendi e promozioni alla perdita del posto. Per il paese significherà rinunciare a un’ampia parte della forza lavoro, un costo imponente, con effetti più concentrati nelle regioni con maggiore produttività, dove è più comune che siano entrambi i genitori a lavorare. Inoltre, molte famiglie saranno tentate di ricorrere all’aiuto dei nonni: non dovrebbero, ma se non avessero altra scelta? Questi effetti colpiranno in modo diverso a seconda delle condizioni socioeconomiche, ad esempio perché solo alcune famiglie potranno assumere collaboratori o seguire i bambini nell’insegnamento a distanza, con l’inevitabile risultato di aumentare le diseguaglianze. Infine, nella realtà italiana è lecito temere che a dover rimanere a casa sia la donna, aumentando anche le diseguaglianze di genere. Le proposte avanzate finora dal governo ben vengano, ma non si può pensare siano sufficienti: di quante baby sitter avremo bisogno? In più, i congedi parentali non risolveranno il problema della perdita di forza lavoro.

  

Forse vale la pena guardare alle scelte di altri paesi europei, molti dei quali hanno programmato una graduale riapertura a maggio delle scuole dell’infanzia e primarie. In Danimarca, gli istituti sceglieranno autonomamente come far rispettare l’obbligo del distanziamento e le classi saranno riorganizzate con orari ed entrate flessibili, utilizzo degli spazi aperti e attività in piccoli gruppi. In tutta Europa il dibattito su quali soluzioni adottare è vivo da settimane. L’Italia, invece, è in netta controtendenza: si parla in modo generico di riaprire le scuole in autunno, senza tuttavia un piano chiaro che giustifichi la tempistica.

 

Troviamo fortemente problematici tre aspetti di questo approccio. Il primo riguarda il “rimandare”: si parla di settembre e non giugno perché sono state fatte attente valutazioni sanitarie e logistiche? Se le ragioni sono di natura sanitaria, ci si attende un vaccino in tre mesi, nuovi farmaci? Se invece sono di carattere logistico, è davvero impossibile concepire e attuare misure preventive prima di settembre? L’attesa ha costi elevati e, inoltre, esiste il rischio concreto di nuove situazioni critiche di contagio in autunno o in inverno: è necessario sviluppare soluzioni prima possibile, non sarebbe accettabile farsi cogliere impreparati un’altra volta.

 

Il secondo aspetto riguarda il trattare il paese in modo omogeneo, mentre la diffusione del virus omogenea non è. In alcune regioni i rischi sembrano più contenuti, perché aspettare anche qui? Secondo quale principio di benessere collettivo i bambini residenti in regioni dove si potrebbero riaprire le scuole dovrebbero comunque rimanere a casa?

 

L’ultimo aspetto, forse il più sintomatico dell’approccio adottato, riguarda l’estate: stupisce che non si parli di aperture estive, come se l’idea fosse impensabile. Il timore è che questo derivi non da considerazioni sanitarie o logistiche, ma dal mantenere schemi mentali pre-crisi: la scuola da settembre a giugno e le vacanze in estate. E’ evidente che non sarà un’estate come le altre: gli italiani lavoreranno di più e andranno meno in ferie, i bambini non avranno bisogno di interrompere la vita ordinaria dell’anno scolastico. Se si pensa a cambiare il calendario sportivo, perché non quello scolastico? Si deve pensare a come creare, una volta superata la fase acuta del contagio, attività scolastiche volontarie, non dell’obbligo, che siano attive almeno fino alla fine di luglio. Occorre permettere alle persone di lavorare e ai bambini di ritrovare un contesto strutturato.

 

E’ senza dubbio possibile concepire un rientro a scuola adottando soluzioni nuove. Per coinvolgere gli insegnanti e il personale scolastico, si può ricorrere a stipendi straordinari per quello che sarebbe un lavoro straordinario e, considerando i costi impliciti delle scuole chiuse, sarebbe un investimento valido. Inoltre, a fronte di un’età media dei docenti relativamente alta bisogna incentivare l’utilizzo di test sierologici per questa categoria. Non abbiamo gli spazi? Si possono utilizzare le scuole secondarie poiché gli adolescenti hanno probabilmente meno bisogno di essere seguiti durante l’estate. E’ complesso da organizzare? Senz’altro: si tratta di trovare gli spazi, negoziare con i sindacati, organizzare la logistica con ingressi, intervalli e pasti scaglionati e valutare i trasporti. Tuttavia, siamo sinceri: è così complicato da non provarci neanche? Dobbiamo avere il coraggio di provare a pensare in modo più innovativo e forse audace. Accettiamo la realtà: viviamo in un periodo diverso e sarà un’estate strana, ma se anche il mondo cambia e si chiude, la scuola può rimanere aperta a tutti.

 

Andrea Mattozzi, European University Institute

Pietro OrtolevaPrinceton University

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