Gli effetti della siccità in California (Getty Images)

La narrazione dell'apocalisse è un ostacolo per il futuro del clima

Giulio Boccaletti

È illusorio immaginare che la narrazione catastrofista mobiliti una politica costruttiva. I due estremi da governare

Stiamo per affrontare una nuova elezione. Tra i tanti rischi di questo momento, c’è quello che la classe dirigente italiana si distragga dalla trasformazione dell’economia che il governo uscente ha definito di “transizione ecologica”. Pare chiaro che alcuni credano che quest’agenda sia l’eredità di un periodo tecnocratico tramontato, e che altri ritengano che l’inflazione e la crisi energetica eclisseranno le preoccupazioni per un futuro remoto.

  

Si sbagliano. Con ogni siccità o alluvione, il territorio italiano, notoriamente molto più vulnerabile dei vicini europei ai cambiamenti climatici, dimostra sempre più il costo della mancata gestione del problema. L’Italia non può permettersi di non agire nella prossima legislatura. Il settore agricolo è severamente esposto, così come i servizi idrici. A questo si sommano rischi sul territorio, da incendi a inondazioni, che si moltiplicano di anno in anno. E la transizione energetica si innesta in Italia in una lunga sequenza di difficoltà storiche e opportunità strategiche che pongono problemi complessi al futuro industriale del paese.

 

Indipendentemente da quale assetto politico emerga dalle prossime elezioni, abbiamo bisogno di una politica che sia in grado di prioritizzare interventi, e di perseguire una strategia di adattamento ad un ambiente che sta già cambiando. Questo richiede avere un’idea di come debba essere fatto il territorio verso il quale andiamo, fare scelte commensurate ai problemi che abbiamo già oggi, e affrontare il cambiamento climatico come una sfida politica di gestione del paese che va spiegata alla cittadinanza.

 A fronte di questa urgenza, però, il dibattito sembra essere bloccato in una contrapposizione retorica tra coloro che ritengono che l’unica possibile motivazione dell’agire sia in risposta ad una futura catastrofe climatica, e quelli che mal nascondono un’allergia tutta agostiniana per le invocazioni da fine del mondo, considerandole un sintomo di isteria collettiva. Questa contrapposizione è tanto veemente quanto inutile. I primi non sono maggioritari e i secondi rinunciano ad offrire un’alternativa che non sia semplicemente fare finta di nulla. Così non si va da nessuna parte.

 

Sulla posizione dei secondi, è importante essere chiari. Si può dibattere l’utilità di una narrazione catastrofica e la sua opportunità politica, ma gli scenari che ispirano paure apocalittiche sono possibili. Se, per dire, i paesi del mondo fossero così folli da lasciare aumentare senza freno le concentrazioni atmosferiche di gas a forte opacità all’infrarosso come l’anidride carbonica, si sa che i ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide potrebbero collassare. In questo caso, evenienza improbabile ma non impossibile, il livello del mare si innalzerebbe abbastanza da sommergere la pianura Padana fino a Piacenza.

 

E non è vero che se i bollettini meteorologici non parlano di cambiamenti climatici, allora ogni discussione di questi ultimi corrisponde ad un’iperventilazione ideologica. Il clima non è la meteorologia di un particolare giorno. È lo stato medio del sistema, composto da atmosfera, oceano, ghiaccio, terre emerse, e valutato su periodi di mesi o anni. La distinzione è importante. Le previsioni meteo hanno un orizzonte massimo di circa dieci giorni. Eppure, tutti facciamo previsioni climatiche su anni futuri senza neanche pensarci. Sappiamo, per esempio, che ogni estate prossima sarà più calda dell’inverno corrispondente. Può sembrare un’ovvietà, ma dimostra il fraintendimento di coloro che sostengono che, se le previsioni meteo sono limitate, nulla si può dire del clima futuro.

 

Non è neanche esatto dire, come ha fatto recentemente un noto scienziato, che la scienza del clima sia giovane e incerta. La disciplina che conosciamo oggi (incluso i modelli numerici che ne sono uno strumento importante) esiste da oltre un secolo, da quando il fisico norvegese Vilhelm Bjerknes applicò l’idrodinamica classica ai fluidi geofisici nel 1904. A quella base dinamica, già dagli anni Trenta, si aggiunsero risultati di fisica quantistica per descrive l’interazione dello spettro solare con le molecole dei gas che determinano l’opacità dell’atmosfera (il cosiddetto effetto serra), e la termodinamica, scienza principe dell’Ottocento, che ha un ruolo fondamentale nella descrizione dei processi che regolano la struttura termica dell’atmosfera e dell’oceano.

  

Già dagli anni Settanta, gli scienziati hanno stimato la sensitività del clima terrestre ad un aumento di anidride carbonica, di quanto cambi il primo in funzione del secondo. Quella stima non è fondamentalmente cambiata in mezzo secolo e, entro l’incertezza calcolata, corrisponde alle osservazioni degli ultimi cinquant’anni. È evidente che i fenomeni coinvolti sono complessi, e che — come in tutte le discipline, specie quelle osservative — rimangono incertezze e problemi aperti, ma i risultati fondamentali sono tanto solidi quanto i fondamenti fisici sui quali sono stati costruiti. La fisica del sistema climatico non è questione di passione politica.

  

Detto tutto questo, però, vale la pena anche chiedersi se il catastrofismo imperante sia una narrazione utile a sbloccare un’agenda politica in un contesto come quello Italiano. Questo modo di pensare diventò dominante a partire dai primi anni 90, quando fu approvata la convenzione quadro per i cambiamenti climatici al Earth Summit delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro. Allora, si sapeva già da almeno vent’anni cosa ci aspettasse dal punto di vista fisico, ma gli impatti erano ancora nel futuro. Se i paesi avessero aggressivamente abbandonato i combustibili fossili, ci saremmo risparmiati cambiamenti climatici severi.

 

Una buona parte del mondo ambientalista adottò allora toni apocalittici, nella speranza di replicare il successo dell’accordo di Montreal, durante il quale i paesi del mondo si accordarono sull’eliminazione dei CFC, gas industriali piuttosto inerti che però avevano la proprietà di interferire con la formazione dello strato di ozono stratosferico che ci protegge dai raggi ultravioletti. In quel caso, fu la paura di un disastroso buco nell’ozono a mobilitare le coscienze. La speranza era che una simile mobilitazione si potesse ottenere sui carburanti fossili. Si puntò su una narrazione sempre più apocalittica, a fondamento dell’esercizio di un principio precauzionale a fronte di un rischio scientificamente evidente ma ancora poco misurabile. Non funzionò. Gli Stati Uniti, com’è noto, non firmarono il protocollo di Kyoto e le emissioni continuarono a crescere.

 

Da allora, la macchina legale che si era messa in moto sotto l’egida dell’ONU ha continuato a lavorare. Nel dicembre del 2015 ha prodotto l’accordo di Parigi, un piano che dovrebbe accompagnare l’economia mondiale verso l’emancipazione dal carbonio nel corso dei prossimi decenni. La narrazione catastrofista è però rimasta e, man mano che si sono fatti sempre più evidenti i sintomi di un cambiamento climatico come quello previsto, l’ansia per il futuro è aumentata. Con essa le invocazioni apocalittiche.

 

Il problema è che questo approccio alla mobilitazione politica ha radici profonde nella nostra cultura. L’uso della catastrofe come strumento retorico e di provocazione etica ha una storia millenaria: dal mito della grande inondazione di Gilgamesh all’Apocalisse di Giovanni alle prediche di Savonarola, il repertorio apocalittico è enorme. Sono storie di trauma e redenzione, paura e speranza, gli ingredienti fondamentali del misticismo religioso, profondamente attraente nell’assenza di dubbio, nella certezza del confronto con la fine del mondo.

 Lo sanno bene coloro che usano questo tipo di retorica in funzione autoritaria come Putin, il Patriarca Kirill, o il premier ungherese Orbán, tutti entusiasti promotori dell’inevitabile apocalisse che incombe sulla civiltà occidentale, minacciata a loro dire da immigrati e minoranze LGBTQ. Ma è proprio questo il problema: l’apocalisse richiama una dimensione escatologica che non lascia spazio alle ambiguità della dialettica politica.

 

È illusorio immaginare che la catastrofe mobiliti una politica costruttiva, oggi, in Italia. Se trent’anni fa il problema era quello di mobilitare le coscienze ad agire su un problema specifico, la riduzione delle emissioni prima che si innescassero cambiamenti significativi, ora la questione si è complicata considerevolmente. Il problema è mobilitare tutti i paesi del mondo verso l’eliminazione del carbonio — compito reso marginalmente più facile dalla riduzione dei costi delle rinnovabili — mentre gestiamo una realtà che già sta cambiando.

 

L’apocalisse, per costruzione, non lascia spazio ad ambiguità. Richiede un atto di fede. La politica, per contro, serve laddove le ambiguità sono tante, e si vuole mobilitare la responsabilità individuale e collettiva della cittadinanza. Indipendentemente dai rischi di lungo periodo, nella gestione della transizione ci aspettano tante ambiguità. Non sono ambiguità che hanno a che fare con la scienza del clima, che oramai ha già fatto la sua parte, ma con le scelte politiche da affrontare.

 

Per esempio, diciotto milioni di persone nel corno d’Africa rischiano la carestia, adesso. Nessun italiano oggi rischia quanto loro. Non possiamo essere indifferenti alla loro vulnerabilità: può portare instabilità sociali con ramificazioni geopolitiche che possono attraversare facilmente il Mediterraneo. Gli agricoltori pugliesi, i cui raccolti di grano duro sono stati strangolati da siccità e guerra in Ucraina, sono molto più vulnerabili degli impiegati di banca di Milano. La vulnerabilità ai cambiamenti climatici e i costi per gestirla sono distribuiti in modo tutt’altro che uniforme.

 

La transizione in atto richiederà scelte politiche difficili e lungimiranza nello spiegarle alla cittadinanza. I prossimi anni saranno una sequenza continua di aggiustamenti territoriali, investimenti infrastrutturali, scommesse esistenziali per interi settori dell’economia, soprattutto quelli che, come l’agricoltura, dipendono dal territorio. Tutte queste scelte, alla fine, contribuiranno a preparare il paese come meglio può a gestire ciò che ci aspetta. Ma nessuna di queste scelte sarà resa più legittima, o più facile, da una narrazione apocalittica.

 

Per quanto vada di moda immaginare un governo della cosa pubblica interamente basato su principi precauzionali, e per quanto sia comune evocare scenari apocalittici per invocare particolari programmi di governo, non possiamo lasciare che soluzioni pratiche, incrementali ai problemi reali che già si sono manifestati nel paese, siano ostaggio di un dibattito che è, in fondo, semantico. La politica democratica è — deve essere — altro.

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