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cattivi scienziati

Il Covid è un fattore di selezione per l'uomo, ma non è solo una questione genetica

Enrico Bucci

Il virus ha agito su una popolazione umana mai così omogenea dal punto di vista dei geni, tutta sottoposta alla stessa pressione selettiva da parte del patogeno. Ciò che invece fa una forte differenza è l’estrema variabilità socioculturale. E anche questa ha contato

In tempi in cui le divisioni fra nazioni sono tali da sfociare in guerra aperta, mettendo a repentaglio la pacifica interazione fra i popoli che sola può portare al progresso civile di tutta l’umanità, vale forse la pena di sottolineare di nuovo a cosa può portare la cooperazione internazionale in un campo che a questa è sempre stato naturalmente aperto – e deve al più presto tornarlo. La ricerca scientifica condotta in tutto il mondo è stata la giusta risposta a un pericolo globale, quello costituito dal virus Sars-CoV-2; ne è uno dei massimi esempi un interessante articolo appena pubblicato su Nature, dedicato alla scoperta di varianti genetiche che predispongono alla malattia grave (e quindi alle sue conseguenze peggiori) in caso di infezione. La fisica ci ha spesso abituato a lunghissime liste di scienziati che cooperano su singoli progetti; questo articolo costituisce uno di quei casi in cui una cooperazione di dimensioni pari o superiori si ritrova in biomedicina, con un elenco di autori e affiliazioni di 37 pagine e la partecipazione di 547 istituzioni di ricerca diverse da tutto il mondo, di cui 90 solo nel nostro paese.

  

In un tempo relativamente breve, lo sforzo coordinato di questa gigantesca collaborazione ha sequenziato completamente il genoma di 7.491 individui da 224 unità di terapia intensiva in condizioni critiche dopo infezione da Sars-CoV-2 e lo ha paragonato a quello di 48.400 individui di controllo. In breve, i risultati del confronto fra i pazienti in condizioni severe e il gruppo di controllo, una volta filtrati via gli effetti di fattori confondenti e di potenziali difetti di campionamento, hanno permesso di identificare 23 varianti genetiche in grado di predisporre gli individui alla malattia severa. Come ci si potrebbe attendere, l’effetto assoluto di queste varianti è risultato più forte nella fascia di età più giovane (minori di 60 anni), perché per età maggiore altre variabili, come comorbidità e fragilità di diverso tipo, pesano maggiormente; al contrario, il peso dei geni è risultato indipendente dal sesso, il che implica che le varianti identificate siano tutte connesse a meccanismi fisiopatologici indipendenti da questa variabile. I fattori predisponenti identificati riguardano la regolazione della risposta antivirale (sia a livello di cellule della risposta immune che di interferoni), l’infiammazione e, per la prima volta in maniera robusta a livello genetico, la coagulazione (e le sue intersezioni con infiammazione e risposta immune); ciò fornisce supporto a livello molecolare a tutte le osservazioni cliniche fatte sin qui, consentendo di definire bene i meccanismi alla base della clinica della malattia severa e aprendo la strada a nuovi trattamenti.

  

In aggiunta a questi risultati illustrati dagli autori, vorrei fare personalmente alcune brevi considerazioni generali. Aver trovato predisposizioni genetiche su uno studio così ampio significa che, da un punto di vista darwiniano, la popolazione umana può essere soggetta a selezione naturale molto rapida, soprattutto visto che l’effetto sfavorente osservato è più forte negli individui in età riproduttiva. Ora, il mondo globale in cui viviamo e la corrispondente rapidissima diffusione della pandemia significano che, grosso modo in contemporanea, l’intera popolazione mondiale (o gran parte di essa) è stata sottoposta alla stessa pressione selettiva da parte del patogeno. Si tratta di un importante elemento di novità: il setaccio di Darwin, in linea di principio, ha agito all’improvviso su tutta la nostra specie, la quale non è mai stata così omogenea geneticamente a livello di popolazione. Altre precedenti pandemie avevano incontrato una popolazione umana localmente più diversa di quanto non sia oggi; il mescolamento sempre più accelerato invece rende le varie popolazioni umane geneticamente più omogenee e appiattisce le differenze genetiche di suscettibilità.

  

Ciò che invece fa una forte differenza è l’estrema variabilità di condizioni di vita – che con rozza approssimazione possiamo chiamare diversità socioculturale, includendovi anche la disparità economica. Queste condizioni di vita, da sole, determinano oggi la risposta a un agente selettivo globale: e questo, se ancora ve ne fosse bisogno, è l’esempio di un possibile meccanismo per come la selezione darwiniana dei nostri genotipi ormai passi attraverso il fenotipo esteso ai fattori socioculturali. Siccome questi ultimi possono rispondere più rapidamente dei nostri geni, abbiamo la possibilità di adattarci; sempre, naturalmente, che non prevalgano abitudini, ragionamenti e disparità antiadattative, come il rifiuto della scienza, che possono al contrario favorire i patogeni. Noi, dal punto di vista della selezione naturale, siamo molto più dei nostri geni; e l’evoluzione e il destino della nostra specie, ormai costituita da una sola popolazione globale superconnessa, sono inscindibili dalla varietà, flessibilità e adattabilità della nostra cultura, della nostra finanza e dei nostri comportamenti.

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