Un argine al Covid

Enrico Bucci

Uno studio dimostrerebbe che il Tocilizumab diminuisce la mortalità. Ma servono altre prove

Un nuovo studio pubblicato su Lancet Reumatology e guidato dalla professoressa Cristina Mussini di Modena, ha scoperto che l’anticorpo monoclonale Tocilizumab, che si ipotizza possa moderare la tempesta citochinica causata dall’infezione di Sars-CoV-2 nei pazienti più gravi, riduce di due terzi (dal 20 per cento al 7) la mortalità dei malati di polmonite da Covid-19 severa se aggiunto ai trattamenti standard, rispetto ai trattamenti standard da soli. Si tratta di uno studio retrospettivo, cioè di uno studio in cui si selezionano a posteriori pazienti che sono stati trattati – presi nel modo più omogeneo possibile – e li si paragona a pazienti di controllo, che non hanno avuto il trattamento, anche in questo caso selezionati in modo da fornire il miglior confronto possibile con i trattati.

 

Il campione considerato è significativo, comprendendo 179 pazienti trattati contro oltre 300 di controllo; inoltre – questo è l’aspetto molto interessante – se si prendono in analisi nella maniera opportuna una serie di bias, quali le differenze dovute a età, genere e altri fattori fra i due gruppi, i risultati sono ancora migliori, e indicano che il rischio combinato di finire in ventilazione assistita e morire è significativamente più basso nei pazienti trattati.

 

Questo studio è particolarmente utile per illustrare un concetto che credo sia interessante. Nell’annunciare i risultati di un diverso studio sullo stesso farmaco, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) aveva indicato che gli effetti del Tocilizumab erano modesti, se si andava a vedere la sopravvivenza dei pazienti trattati. Nel suo comunicato del 13 maggio scriveva: “In conclusione, lo studio non fornisce una prova definitiva di efficacia del Tocilizumab in pazienti con polmonite da Covid-19, trattandosi di uno studio non comparativo”. Come mai questa differenza? La risposta, naturalmente, sta nel metodo. Sebbene non si abbiano dettagli sufficienti per lo studio a cui si riferisce Aifa, è possibile già notare che il campione di soggetti trattati appare più eterogeneo per il trattamento e forse più grave di quello dello studio appena pubblicato su Lancet (tra i soggetti trattati ve ne sono alcuni intubati nelle 24 ore precedenti alla somministrazione del farmaco); inoltre, il confronto per valutare gli effetti sulla mortalità nella ricerca Aifa sembra essere fatto rispetto a una percentuale assunta come standard (20 per cento), invece che rispetto a un gruppo di controllo scelto opportunamente. Oggi il nuovo studio retrospettivo chiarisce le cose, e mostra che il farmaco potrebbe funzionare.

 

Per la prova definitiva serve il risultato di uno studio in cieco e randomizzato; ma intanto, con la ricerca odierna si è aggiunto un nuovo tassello che indica come un farmaco riposizionato, basato su un razionale chiaro, potrebbe agire proprio nel modo atteso. Aspettiamo quindi anche per questo farmaco l’ultimo e definitivo passo della Evidence Based Medicine, l’unico modo saldo e sicuro per arrivare, alla fine, a una cura che funzioni davvero – non a un ennesimo comunicato stampa.

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