Il populismo ha svilito il sapere per esaltare il dogma. Ma nell’emergenza globale del Covid-19 è emerso il divario tra le aspettative mirabolanti dell’opinione pubblica (e dei governi) e la vera scienza, che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo sulle mascherine. Un confronto a più voci
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La pandemia ha mostrato il divario fra la scienza e La Scienza. La prima è l’umile esercizio della conoscenza della realtà secondo metodi specifici; la seconda è la sua parodia magica e onnisciente che abita nella coscienza collettiva. L’una e l’altra normalmente si confondono, abbracciate come sono nel grande fraintendimento epistemologico e comunicativo dei nostri tempi, ma le circostanze straordinarie che il mondo si trova ad attraversare hanno in qualche modo contribuito a distinguere e separare. E’ di moda dire che la crisi è un’opportunità, dunque tanto vale allinearsi al luogo comune e cogliere l’occasione per fare qualche precisazione attorno allo statuto della scienza e alle esorbitanti pretese di alcuni suoi presunti seguaci. Nell’affrontare la minaccia globale di un nuovo virus si è visto con rara chiarezza che la scienza, con la minuscola, è fatta di congetture. Il suo dibattito si articola in ipotesi competitive, faticose verifiche sperimentali, approssimazioni, certezze provvisorie, cambi di paradigma, scontri metodologici, fragili verità che appena conquistate vengono immediatamente rimesse in discussione. Per la scienza, la falsificazione di una teoria è un momento felice, perché escludere con un ragionevole grado di certezza una strada sbagliata significa fare un piccolo passo verso una strada giusta. Anzi, una strada più giusta. E’ il regno dell’incerto e del discutibile, abitato da metodologie fra loro in tensione e anche da ampi spazi dove incertezza e mistero dominano. In alcuni ambiti, gli scienziati possono arrivare ad essere certi dell’incertezza e a dimostrare l’indimostrabilità, occorrenza notevole e vertiginosa. La scienza è orientata innanzitutto alla descrizione dei fenomeni, non alla previsione di quello che verrà, ed è ancorata all’ignoranza autocosciente di Socrate: non solo “non so”, ma “so di non sapere”. Lo scienziato che ammette di non sapere non tradisce la sua vocazione scientifica, la compie.
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