il 'Regno degli Elefanti' nella provincia di Dak Lak (foto LaPresse)

Che meraviglia, gli elefanti sanno cose che ancora l'uomo non sa

Giulia Pompili

Li abbiamo cacciati, cavalcati, sfruttati, umanizzati. Poi abbiamo iniziato a osservarli. E abbiamo scoperto che non esiste animale che metta più in discussione il nostro rapporto con la natura. Ma c’è anche un lato oscuro

Sarebbe utile sapere quanta pasta c’è nel piatto soltanto annusandolo? Okay, non sarebbe così utile, ma non lo è soltanto perché ci siamo adattati, e perché attraverso l’evoluzione siamo arrivati ad avere a disposizione le tecnologie che quantificano al posto dei nostri sensi da homo sapiens. Per gli animali è tutta un’altra storia. La quantità, nella maggior parte dei gruppi animali, si misura attraverso il senso della vista: sappiamo che il bicchiere è pieno o mezzo pieno o vuoto perché lo guardiamo. Per l’homo sapiens c’è poi il bilancino, o le lineette delle bottiglie, insomma le unità di misurazione. Gli elefanti invece hanno i superpoteri. Uno studio dell’Indian Institute of Science di Bangalore, pubblicato a giugno sulla rivista Pnas della National Academy of Sciences americana, dimostra che gli elefanti usano (anche) l’olfatto per misurare le quantità. “Gli animali spesso affrontano situazioni che richiedono di prendere decisioni basate sulle quantità”, si legge nell’articolo. “Molte specie, incluso l’essere umano, fanno affidamento sulla capacità di distinguere tra il più o il meno per prendere decisioni sulle relazioni sociali, il territorio, il cibo”. Se devono raggiungere un luogo, sceglieranno quello con più quantità di cibo e valuteranno allo stesso tempo il rischio che corrono in base alla dimensione del gruppo di predatori. Come diavolo facciano i pachidermi ad avere contezza delle quantità soltanto annusandole è un mistero per l’essere umano, che è in grado di sapere se c’è o meno un pezzo di pane in una cesta attraverso l’odore, ma non sa quanto pane effettivamente ci sia finché non lo misura con la vista, o con la bilancia. E’ una capacità, quella degli elefanti, che cambia la nostra conoscenza del mondo animale ma anche il nostro rapporto con loro. Joshua Plotnik, uno degli autori dello studio, ha detto al New York Times che finora i conflitti tra l’uomo e l’elefante si sono risolti semplicemente respingendo gli animali: si spaventano gli elefanti per allontanarli, come facciamo con i bambini quando raccontiamo frottole per evitare che si mettano in pericolo (l’uomo nero, il lupo cattivo), e invece si potrebbe usare la comprensione del loro comportamento a vantaggio di tutti.

 

Come facciano i pachidermi ad avere contezza delle quantità soltanto annusandole è un mistero per l’essere umano

Il remake in live action di “Dumbo” della Disney diretto da Tim Burton uscito nelle sale a fine marzo è costato 170 milioni di dollari e ne ha incassati 352: non un successo straordinario. Del resto certi remake hanno questa prerogativa: insistere sulla nostalgia, ma poi per istinto tutti preferiscono l’originale. L’elefantino volante Dumbo è nato nel 1939, è il protagonista di un racconto scritto da Helen Aberson e illustrato da Harold Pearl che poi, due anni dopo, è diventato uno dei più grandi successi animati della Disney. L’iconico elefantino volante è anche l’unico protagonista di un cartone animato che non parla mai, ma comunica attraverso la proboscide, le orecchie e gli occhi. Grazie a questo trucco Dumbo è diventato la rappresentazione pop dell’elefante, contribuendo a rendere popolari i pachidermi, certo, ma anche a darne una versione umanizzata. Se ne è discusso parecchio, in passato, anche nei riguardi dell’approccio all’etologia, lo studio del comportamento animale: dobbiamo credere che gli animali siano una versione meno evoluta di noi, dobbiamo dargli caratteristiche umane, oppure dobbiamo rispettare e conservare il loro essere-nel-mondo? E’ una domanda dirimente, perché dalla risposta dipendono i progetti di conservazione e di biodiversità. Un elefante è un elefante (è un elefante), direte voi. Ma un elefante è un mondo intero, costruito sulle nostre proiezioni ma anche sull’evoluzione della nostra conoscenza di lui – e quando lo riconosciamo, l’elefante in quanto elefante nella sua interezza, è una rivelazione.

 

Come facciano i pachidermi ad avere contezza delle quantità soltanto annusandole è un mistero per l’essere umano

Dice Jonathan Franzen che quando si incontrano gli animali familiari si fa fatica a riconoscerli. E parte della colpa è appunto della cultura di massa, che ha antropomorfizzato molti degli animali con i quali geograficamente abbiamo poca dimestichezza – zoo esclusi. “Al di là delle sorprese, una realtà sconosciuta deve arrivare a sopraffarvi per poter entrare in contatto con voi”, scrive Franzen nel testo “Cartoline dall’Africa orientale” del libro “La fine della fine della terra” (Einaudi). “Mi ci è voluto un po’ di tempo, in Africa, per sfuggire alla sensazione che avrei potuto benissimo trovarmi in Florida. Ma alla fine, grazie alla vastità dei parchi della Tanzania e del Kenya, e grazie alla sbalorditiva quantità di animali selvatici, ho cominciato a vedere i branchi di erbivori come abitanti di qualcosa che assomigliava a un ecosistema intatto, a collocarli mentalmente in un continuum storico all’inizio del quale quegli animali scorrazzavano liberi per tutto il continente, e quindi ad apprezzare, almeno un pochino, la loro straordinarietà”. Franzen è un appassionato di bird watching, ma per fare bird watching ha dovuto studiare la geografia, la biodiversità, soprattutto viaggiare tantissimo: “Ho cominciato a vederli veramente. C’era la curiosa larghezza della testa delle zebre, la robustezza dei loro fianchi mentre si arrampicavano sui pendii; sembrano decisamente addomesticabili e cavalcabili, ma a quanto pare non lo sono, e questo mi ha colpito. Gli orici – animali davvero notevoli – avevano le corna così lunghe che quasi non dovevano girare la testa per grattarsi sotto la coda. Le giraffe erano così grandi che quando correvano, come talvolta facevano, sembravano galoppare al rallentatore (così devono sembrare i nostri movimenti agli uccellini)”. Come si fa, si domanda Franzen, a dimenticare di essere turisti, di passaggio in un luogo che è fatto apposta per gli avvistamenti? E’ un delicato equilibrio in cui l’uomo è semplice osservatore, è nella natura ma una natura fatta apposta per lui. L’osservatore modifica l’ambiente circostante, ci passa con le jeep, scortato da altri esseri umani armati. “Se un parco sia parte della natura oppure semplice simulacro è una domanda che si pongono solo gli umani. Gli animali, grandi e piccoli, si limitano a prendere quello che gli viene dato e a vivere come possono. E’ difficile, tuttavia, contemplare un branco di elefanti nel parco del Serengeti senza chiedersi se siano stati spinti entro i suoi confini dalla pressione dei bracconieri e degli allevatori di bestiame. Per staccarsi dal contesto postmoderno, per ricondurre il proprio campo visivo, è utile puntare il binocolo su qualcosa di piccolo”. Gli uccelli, appunto, e non gli elefanti: l’estremamente grande.

 

“Dumbo” della Disney è diventato la rappresentazione pop dell’elefante, contribuendo a rendere popolari i pachidermi

Da queste parti siamo molto sensibili al tema, se non altro perché il fondatore di questo giornale da più di vent’anni firma i suoi articoli con un elefantino rosso. Lo stesso dei repubblicani d’America, un simbolo che ha una storia interessante: il 9 novembre del 1874 il New York Herald pubblicò la famosa prima pagina con la bufala degli animali scappati dallo zoo di Central Park che aveva creato il panico nella città. All’epoca il presidente repubblicano Ulysses S. Grant sembrava voler correre per il terzo mandato, nonostante la prassi ne consentisse due, e i democratici erano sul piede di guerra. Negli stessi giorni sull’Harper’s Weekly il più celebre dei vignettisti politici americani, Thomas Nast, usava la storia dello zoo per ironizzare sulla campagna dei democratici sul “terrore della dittatura Grant”, disegnando l’elefante per il Partito repubblicano e l’asino per quello democratico. Questa è più o meno la leggenda, perché in realtà non era la prima volta che l’elefante veniva usato per rappresentare il partito di Lincoln, ma è universalmente riconosciuto che fu Nast a fargli acquistare popolarità e alla fine – non si capisce bene come, in realtà – il Gop decise di affidarsi ufficialmente alla forza e alla perseveranza rappresentati dall’elefante.

 


“Percepiamo che il loro incedere nel paesaggio è intenzionale. Non possiamo negarlo: stanno andando in un luogo che hanno bene in mente”


  

Dobbiamo credere che gli animali siano una versione meno evoluta di noi, dobbiamo dargli caratteristiche umane?

Per noi l’elefante è quella cosa lì, orecchie grandi, proboscide e pelle durissima grigia. Ma la nostra conoscenza dei pachidermi è cambiata radicalmente negli ultimi anni, a partire dalle specie. Fino al 2010 si credeva esistessero sul pianeta soltanto due specie: gli elefanti asiatici e quelli africani. Gli asiatici sono più piccoli rispetto a quelli del continente africano, e anche la dimensione delle orecchie è diversa. Poi nove anni fa l’università di Harvard ha dimostrato che anche gli elefanti africani si dividono in due gruppi, che si distinguono non solo per la stazza, ma anche per un codice genetico completamente diverso, come un gatto selvatico e un ghepardo. Gli elefanti della foresta pesano la metà di quelli della savana, hanno le orecchie più rotonde e le zanne più dritte e si sono evoluti nelle foreste pluviali dell’Africa centrale e occidentale. Gli elefanti della savana hanno le orecchie quasi triangolari e le zanne grosse, spesse e curve, e migrano per distese immense, dall’Africa orientale fino al sud del continente, dove sono più numerosi.

 

Dice Jonathan Franzen che quando si incontrano gli animali familiari si fa fatica a riconoscerli. Le colpe della cultura di massa

Gli elefanti africani della savana sono la specie più a rischio, soprattutto per via delle grosse zanne d’avorio (uccidere un elefante e prenderne le zanne è costoso, se in una unica operazione se ne prende di più è conveniente). A settembre 2018 la Elephants Without Borders, un’organizzazione internazionale che si occupa di operazioni antibracconaggio, ha detto di aver scoperto in soltanto due mesi le carcasse di una novantina di elefanti uccisi illegalmente all’interno della famosa riserva naturale del delta dell’Okavango, in Botswana. Quelle immagini sono finite sui media internazionali, e nonostante gli appelli alla conservazione, hanno sancito la fine del cosiddetto “paradiso degli elefanti”, com’era definito il Botswana. Grazie al sostegno della comunità locale, nel 2014 il governo dello stato dell’Africa del sud aveva messo al bando il traffico di avorio, aveva armato i suoi guardiacaccia e li aveva autorizzati a “sparare per uccidere” i bracconieri. Nel 2015 in Botswana viveva il 37 per cento dell’intera popolazione di elefanti della savana. Poi nell’aprile del 2018 è arrivato il presidente Mokgweetsi Masisi, che ha cambiato le regole, tolto i fucili alle guardie e soprattutto eliminato il divieto di cacciare i pachidermi. In un editoriale in lingua inglese pubblicato a giugno sul Wall Street Journal, scritto per spiegare ai lettori stranieri la decisione, Masisi ha smentito alcune leggende che sono circolate negli ambienti animalisti, tipo che non ha intenzione di sfamare i suoi cani con la carne di elefante: “Il punto è che noi che in Botswana viviamo vicino agli elefanti diamo la precedenza al loro benessere, ma mentre il divieto fu deciso nel 2014 per conservare gli esemplari, oggi gli elefanti in Botswana non sono a rischio. Al contrario, mentre in tutta l’Africa diminuiscono, la popolazione qui è esplosa – siamo passati da 50 mila nel 1991 a più di 130 mila oggi”. Secondo il governo il fragile equilibrio del paese è messo a rischio dalle migrazioni dei pachidermi in cerca di cibo e acqua, e dall’aumento delle “interazioni pericolose” tra elefante e uomo. In pratica riaprire la caccia – strettamente regolamentata – potrebbe “salvaguardare” le “magnifiche creature” ma soprattutto gli esseri umani, sempre più minacciati dai branchi di elefanti nei villaggi. “Una telefonata da casa mi ha svegliato una notte mentre ero in visita negli Stati Uniti. Balisi Sebudubudu, un uomo del villaggio rurale di Semolale, era stato attaccato e ucciso da un elefante”, ha scritto sul Wall Street Journal. Quando il presidente Masisi ha tuittato le condoglianze alla famiglia di Sebudubudu, molti animalisti in vista tra cui Ellen DeGeneres, uno dei volti più noti della campagna per la conservazione degli elefanti, hanno iniziato una campagna contro il Botswana e il suo governo. Le cose ovviamente sono più complicate di così: “Loro li considerano cuccioli innocui. E sono anche cuccioli, ma sono buoni quando li osserviamo da lontano”, aveva replicato in un’intervista Masisi. Negli ultimi tre anni 28 persone sono state uccise dagli elefanti in Botswana. La rimozione del divieto di uccidere i pachidermi “permette alla popolazione locale di difendersi”, scrive Masisi. Ma c’è un altro fattore da considerare: la Cina, e l’influenza di Pechino sui paesi africani.

 

L’elefantino rosso dei repubblicani d’America, nato da una vignetta di Thomas Nast, e la firma del fondatore del Foglio

Il paese asiatico ha adottato il divieto sul traffico dell’avorio nel 2017, ma è ancora un work in progress: “In Cina l’avorio è considerato uno status symbol”, scrive sul Diplomat Kevin Bielicki. “Le zanne vengono portate in Cina e trasformate in qualsiasi cosa, dalle statue buddiste alle bacchette per il cibo”. Per un’assurdità del sistema, l’aumento della domanda di avorio è iniziata nel 2008, quando la Conferenza della Cites – la convenzione internazionale sul commercio delle specie minacciate di estinzione, parte dell’Onu – ha eseguito l’ultima milionaria asta dell’avorio confiscato a livello internazionale, facendo tornare sulla scena il pregiato e tradizionale materiale in Cina e Giappone. Dopo il 2008, “in Tanzania la popolazione di elefanti è passata da 110 mila esemplari nel 2009 a 44 mila nel 2014”, scrive Bielicki. Una delle persone chiave dietro al contrabbando di avorio si chiama Yang Fenglan, una settantenne di Pechino soprannominata la “regina dell’avorio”. Con una laurea in lingua swahili, era partita negli anni Settanta per il paese africano, aveva aperto un ristorante, era diventata una personalità molto nota in Africa. E’ stata condannata all’inizio di quest’anno da un tribunale della Tanzania a quindici anni di carcere perché ritenuta responsabile della morte di almeno 400 elefanti, per un giro d’affari da 2,5 milioni di dollari. “In Mozambico la Cina ha un’influenza notevole sull’industria locale del legname, e negli anni Novanta una comunità di pescatori del Fujian e del Guangdong si è trasferita lì per entrare nel business dei cetrioli di mare. Era cresciuta una piccola ma vivace comunità di cinesi nell’Africa orientale. Ma una volta capito che l’avorio era molto più redditizio dei cetrioli di mare, è nata quella che è stata definita ‘l’organizzazione di Shuidong’”, scrive Bielicki. Shuidong, una piccola città sopra l’isola di Hainan, è dove arrivavano i cetrioli di mare pescati dall’Africa. Grazie a una lunga indagine della Environmental Investigation Agency, si è scoperto che dopo il 2008 i pescatori si erano trasformati in contrabbandieri e avevano fatto della città il porto di destinazione dell’80 per cento dell’avorio in arrivo dall’Africa.

 

“Ascoltate e basta. Forse non parlano a noi, ma tra di loro si dicono molte cose. Alcune, le udiamo; altre, sono al di là delle parole”

In questi giorni si sta svolgendo a Ginevra la triennale conferenza della Cites. Vi partecipano tutti i 183 paesi membri del trattato, entrato in vigore nel 1975. Le decisioni prese dalla conferenza, in questo strano mondo contemporaneo in cui il multilateralismo è stato sospeso, forse non faranno la differenza, ma aiutano a capire l’approccio dei vari paesi coinvolti. Per esempio, è difficile che si decida qualcosa per vietare il traffico dei trofei di caccia: Barack Obama aveva vietato l’importazione di teste di elefanti e leoni dall’Africa, di solito vittime di quella pratica per cui i ricchi pagano molti soldi e vengono aiutati, in posti remotissimi della savana, a uccidere i grandi animali – ve la ricordate la fotografia di Donald Trump junior nel 2011 con la testa di un elefante, no? E poi non è soltanto il Botswana, ma anche altri paesi stanno cercando di far passare la proposta di cambiare le regole internazionali sul traffico di avorio – dopo che ho ucciso un elefante per legittima difesa, è anche giusto che io possa tirar su qualche soldo vendendone le zanne, no? Ma anche l’Unione europea (l’Unione europea!) qualche giorno fa si è trovata con Stati Uniti e Zimbabwe a difendere un interesse particolare: quello di prelevare gli animali selvatici e portarli in cattività – per gli zoo, per i circhi, per miliardari con molto posto in giardino.

 

Fino al 2010 si credeva esistessero soltanto due specie di elefanti: quelli asiatici e quelli africani. E invece ce n’è una terza

E’ successo che il 18 agosto scorso i paesi del Cites hanno votato per modificare un accordo vigente e limitare il commercio di elefanti vivi catturati in natura in alcuni paesi. L’Ue prima si era opposta, poi aveva chiesto un rinvio della votazione senza ottenerlo, e poi alla fine si è astenuta, e quindi la regolamentazione è passata. “Crediamo che siano creature intelligenti con complesse reti sociali”, ha detto il delegato del Burkina Faso parlando degli elefanti, e per convincere l’assemblea a fermare la pratica di acquistare e spostare i cuccioli dove gli occidentali possano vederli senza prendere un aereo. Ma a parte il business, ha davvero senso far crescere una minuscola comunità di animali in cattività?

 

La “regina dell’avorio” è Yang Fenglan, settantenne di Pechino. Il porto di Shuidong trasformato dai contrabbandieri cinesi

“Osservate. Ascoltate e basta. Forse non parlano a noi, ma tra di loro si dicono molte cose. Alcune, le udiamo; altre, sono al di là delle parole. Io voglio ascoltare, aprirmi alle possibilità”, scrive Carl Safina nel passaggio chiave del suo saggio più famoso, “Al di là delle parole”. Uno dei più bei progetti editoriali degli ultimi anni è senza dubbio la collana “Animalia” di Adelphi, inaugurata nel 2018 con la traduzione del bestseller “Beyond Words: What Animals Think and Feel”. I due volumi successivi sono “Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza” di Peter Godfrey-Smith – che non è soltanto un libro sui cefalopodi ma anche sul nostro modo di pensare e di evolverci – e “La mente del corvo” di Bernd Heinrich. A parte quest’ultimo, che è del 1999, i libri di Safina e Godfrey hanno in comune il fatto di essere molto recenti, e quindi adottano già un approccio moderno all’etologia: non si tratta più di ritrarre gli animali come altro da noi, ma di studiare gli animali per capire meglio noi stessi e il rapporto tra l’uomo e l’ecosistema. Non è un caso se certi saggisti e divulgatori abbiano background accademici inediti – come Godfrey-Smith, che è un filosofo della scienza.

 

Carl Safina, sessantaquattro anni, nonni siciliani e studi in ambiente ed ecologia, è un biologo d’esperienza, molto noto nel mondo della divulgazione scientifica. Il suo obiettivo è quello di cercare un approccio diverso rispetto agli estremismi, cioè l’approccio della comprensione. Può sembrare banale dirlo, ma è esattamente la differenza che c’è tra un bambino che allo zoo sbatte le mani contro il vetro per attirare l’attenzione dell’animale e quello che invece lo guarda, lo studia, e ne intuisce il ruolo nell’ecosistema. “Safina sfida l’ortodossia scientifica”, scriveva sul New York Times Gregory Cowles a proposito del libro, “Accetta come un dato di fatto che gli animali siano capaci di sviluppare pensieri ed emozioni, un assunto che è tutt’altro che scontato tra gli etologi”. Ma come si spiegano, se non così, alcuni comportamenti degli elefanti? “Orecchie enormi che sbattono. Pelle coriacea, incrostata di polvere. Denti bizzarri, protrusi, grossi come le gambe d’un uomo, posti su entrambi i lati d’un naso che è il più fallico al mondo. Un aspetto così grottesco, pari alle bizzarre figure d’una gargouille, dovrebbe apparirci orribile. E invece vediamo in loro un’immensa intangibile bellezza, a volte così intensa da sopraffarci. Avvertiamo molto di più, qualcosa di molto più profondo. Percepiamo che il loro incedere nel paesaggio è intenzionale. Non possiamo negarlo: stanno andando in un luogo che hanno bene in mente”. Com’è vero, e quanti elefanti ci vorrebbero per fare un uomo.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.