Charles Green, Il ciarlatano, 1866

Anche la ricerca scientifica sta ammalandosi di post verità e pol corr

Simonetta Sciandivasci

Un anno di bufale a fin di bene. La provocazione di tre studiosi

Roma. Un professore di filosofia, uno scrittore e una giornalista hanno scritto balle spaziali per un anno, le hanno impacchettate dentro articoletti pseudo-scientifici e sono riusciti a farsi pubblicare su riviste scientifiche, a volte anche di spessore.

 

L’articolo nel quale raccontano questa storia di bufale a fin di bene, pubblicato sul magazine online Areo (di cui la giornalista del trio, Helen Plunckrose, è direttrice), e ripreso dal New York Times, comincia col dire che la ricerca, specie quella in campo umanistico, sta diventando uno strumento di conferma e non d’indagine; sta puntando sempre meno alla verità e sempre di più all’ideologia; sta mettendosi a servizio di un modo di vedere particolare: il più in voga.

 

Si tratterebbe, viene da pensare, di un gigantesco, spaventoso contagio. Le bolle di Facebook, gli algoritmi, le post verità, i costrutti sempre e solo confermativi contro i quali, da mesi, invochiamo la scienza, avrebbero finito con il modellarne lo strumento d’indagine. E questo è un paradosso destinato a diventare un vicolo cieco: come potremo difenderci dalla ricerca, se è stato proprio sfiduciarla, insieme a una serie di altri criteri più o meno scientifici e senz’altro razionali, a condurci all’aggressione continua della verità, alla negazione dell’evidenza, allo scherno della complessità? Plunckrose e i suoi compagni di studio hanno notato questo: la curiosità dei ricercatori s’è trasformata in compiacimento delle idee “politicamente di moda”.

 

Significa che molte ricerche vengono affidate a ricercatori che mostrino sensibilità e predilezione per temi molto sentiti dalle persone comuni – temi di dibattito pubblico, per intenderci – e, soprattutto, che elaborino teorie e portino prove a sostegno delle posizioni che, su quei temi, riscuotono più consenso. Dev’essere per questa ragione che la maggior parte delle ricerche in campo umanistico si concentra su sessismo e razzismo e, più nel dettaglio, su tutto quello che, per disinnescarli, abbiamo preso a definire “costrutto culturale” (un esempio su tutti è il sesso: esiste davvero quello biologico o è solo una categoria del pensiero che non ha fondamento nella realtà, ma solo nel bisogno di dare un ordine alla realtà fenomenica?).

   

Il primo articolo che il trio ha prodotto, lo scorso anno, s’intitolava “Il pene come costruzione sociale”, venne pubblicato dalla rivista Cogent Social Science, conteneva imprecisioni e dati fasulli, eppure, poiché metteva in dubbio che gli attributi sessuali determinino tanto l’identità quanto il genere sessuale, richiamò un’attenzione impressionante da parte della stampa e del mondo accademico. Da allora, per i dodici mesi successivi, i tre studiosi hanno continuato a produrre contenuti dai titoli altisonanti (sulla resilienza, sulla cultura dello stupro, sulla mascolinità tossica, sul patriarcato cronico, sulle regole di attrazione tra eterosessuali), che sono diventati venti paper zeppi di menzogne e facilonerie: quasi tutti sono stati accettati da testate scientifiche. Molti accademici hanno definito l’operazione di Areo come una provocazione dannosa, un attacco disfattista alla comunità scientifica: una “trollata”.

  

Al New York Times, però, uno degli autori ha detto che il loro intento era politico: proteggere l’integrità della ricerca, riportare l’attenzione sul rigore dei suoi standard. “Voglio che ci si chieda come sia possibile che persone senza dottorato di ricerca possano scrivere un articolo su qualsiasi cosa e vederselo pubblicato su una rivista di settore”. Riflettiamo sul fatto che la risposta sta nel desiderio che abbiamo non solo di semplificare il pensiero, ma di evitare il dubbio ponendo su ogni questione il sigillo del “lo dice la scienza”, senza verificare che davvero di scienza si tratti.

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