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Clima immaginario

Piero Vietti
Alla Conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite a Parigi si combatte un nemico vago e distante per evitare di affrontare chi ci terrorizza oggi. Non c’è solo il senso di colpa dell’uomo occidentale dietro alla battaglia ambientale.

"Che cosa diremo ai nostri nipoti?”, si chiedono (e ci chiedono) i leader del mondo radunati a Parigi per la Conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite. Come criticare un politico che si dice seriamente preoccupato per le generazioni che verranno, e che promette di lasciare loro un mondo migliore riducendo le emissioni di gas serra nell’atmosfera? L’occidente stanco ha trovato un nuovo nemico, il clima che cambia, e un nuovo orizzonte, il 2100, dimenticando il terrorismo jihadista che assedia il 2015. Non c’è da stupirsi: cercare nemici più o meno immaginari contro cui combattere, meglio se vaghi, lontani nel tempo e in nome di una battaglia politicamente corretta, è tic tipico del nostro mondo, e affligge in particolare leader, intellettuali ed elettori di sinistra. Lo spiegava bene ieri sul Wall Street Journal il columnist Bret Stephens: succede con il razzismo, l’isteria sui presunti stupri nei college americani, l’emergenza fame tra i poveri. E’ la grande industria della compassione che ha bisogno di funzionare di continuo, con la certezza che a forza di ripetere certi allarmi, tutti si convinceranno che sono veri. Con l’emergenza climatica la dinamica è la stessa.

 

Quel “che cosa diremo ai nostri nipoti?” serve a far sentire in colpa l’uomo occidentale, a farlo preoccupare per quello che succederà tra cinquant’anni, in modo che non si accorga che chi è al potere non sa rispondere all’emergenza, ben più grave, del terrorismo. Nel suo editoriale Stephens sottolinea l’incongruenza di parlare di nemico da sconfiggere (la CO2) nella stessa città in cui ben altri nemici hanno fatto strage di civili pochi giorni prima. La sinistra moderna, annota ancora Stephens, porta avanti le sue politiche a colpi di “sostituzione di realtà”: se c’è un problema difficile da risolvere, si sposta l’attenzione su tutt’altro, sostenendo a gran voce che quello è il problema più urgente, sia esso sociale, di diritti negati a qualche minoranza o climatico.

 

A Parigi la messinscena parte da un trucco linguistico, quel cambiamenti climatici che vuol dire tutto e niente, giacché sulla Terra il clima è sempre cambiato, anche repentinamente. Poi c’è l’isteria, sapientemente costruita in anni di allarmi mediatici, per cui l’aumento delle temperature globali di meno di un grado dal 1880 a oggi sembra a tutti un dramma irreparabile (ci hanno convinti che continuerà così per sempre, che le variazioni naturali o il Sole non c’entrano niente, e che non potrà essere fermato se non con drastici interventi di natura politica ed economica). Quindi le urgenze che mettono sotto pressione la politica: l’Himalaya che si scoglie, le calotte polari che scompaiono. E poiché la compassione non è mai troppa, ecco radunati a Parigi anche tutti quelli il cui lavoro è a rischio, dall’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, gli scienziati del clima, i produttori di pannelli solari, fino alle più piccole ong preoccupate per le sorti del pianeta.

 

[**Video_box_2**]La descrizione di Stephens sul Wall Street Journal è impietosa ma calzante: tutto questo carrozzone, compresi migliaia di delegati riuniti a Parigi per due settimane a spese della collettività, riesce a trasmettere l’idea che se anche la crisi non fosse così drammatica, comunque non fa male essere un po’ più attenti all’ambiente. A questo punto il gioco è fatto, conclude Stephens: “Se il tuo nemico è il terrorismo islamico servono armi, militari e decisione politica. Se il tuo nemico è un’economia globalizzata ad alta intensità energetica serve una giustificazione convincente per batterlo”. La distopia climatica può fare miracoli, a patto che i jihadisti non interrompano troppo spesso.
Piero Vietti

 

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.