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cattivi scienziati

Le domande senza risposta sulla variante di Covid-19 creata in laboratorio a Boston

Enrico Bucci

Un preprint ha dimostrato che la patogenicità di Sars-Cov-2 non c'entra con la proteina Spike. L'esperimento ha prodotto un virus chimerico meno letale di quello originale ma di gran lunga più letale di Omicron. Dubbi sull'utilità di simili ricerche

Una delle questioni a cui si è risposto molto presto riguarda il ruolo delle mutazioni che, via via che la pandemia è progredita, si sono accumulate sulla proteina Spike del virus Sars-CoV-2: da molto tempo è noto che queste mutazioni contribuiscono sia alla capacità del virus di riconoscere il recettore umano ACE-2, e quindi entrare nella cellula, sia soprattutto a sottrarre il virus al riconoscimento anticorpale.

La proteina, infatti, e particolarmente alcune sue porzioni, è quanto il sistema immunitario riesce a “vedere” meglio del virus, dato che essa protrude all’esterno della particella virale, ben esposta al riconoscimento degli opportuni anticorpi; non vi è da stupirsi, quindi, se le mutazioni che definiscono ceppi con capacità immunoevasiva avvengono proprio a carico di Spike, ovvero di quello che è l’antigene immunodominante di Sars-CoV-2. Del resto, quando la Spike fu scelta per fare i primi vaccini, una delle ragioni fu esattamente la sua alta immunogenicità, cioè il robusto riconoscimento operato dal sistema immunitario nei confronti di quella proteina. Ora, un nuovo preprint rilasciato da un ampio gruppo di ricerca, guidato principalmente dall’università di Boston, ha dimostrato che, effettivamente, le mutazioni osservate nella proteina Spike del ceppo Omicron determinano proprio la capacità del virus di propagarsi rapidamente e di evadere la risposta immunitaria, mentre non sono legate alla diminuita patogenicità del ceppo; i determinanti della patogenicità, dunque, devono essere al di fuori di Spike, in altre proteine del virus. Fin qui, sembrerebbe un lavoro come tanti, utile ad incrementare la nostra conoscenza sul patogeno di cui tratta; i problemi nascono, tuttavia, quando si analizza il metodo usato dai ricercatori per ottenere il summenzionato risultato. In breve, è stato preso il virus “originario”, quello con cui è cominciata la pandemia, e su quello è stata “innestata” la proteina Spike di Omicron. Così, si è ottenuto un virus chimerico che nei topi mantiene grosso modo la letalità del ceppo originario, ma acquisisce immunoevasività e capacità invasiva tipiche di Omicron, con il che dimostrando che la proteina Spike di Omicron non influenza o influenza poco la patogenicità, ma modula il riconoscimento anticorpale e la capacità di invasione cellulare.

Ovviamente, un simile modo di procedere ha immediatamente fatto gridare allo scandalo testate giornalistiche che dello scandalo fanno la propria cifra di riconoscimento, come il Daily Mail, che titola riportando la creazione di un virus con letalità dell’80 per cento. Articoli di questo tenore sono stati prontamente stigmatizzati dall’università di Boston, che in sostanza rileva innanzitutto come, nei particolari topi utilizzati dai ricercatori, il virus originale abbia una letalità del 100 per cento, e in secondo luogo come la ricerca in questione non possa essere considerata gain-of-function, un tipo di ricerca controversa e che richiede speciali autorizzazioni (a quanto pare non ottenute da Boston), perché non si sono ottenuti virus con funzioni nuove, e rispetto al virus originale si è ottenuta invece una variante leggermente meno letale. Per una volta, io credo che le testate scandalistiche che hanno gridato all’oltraggio da parte della comunità scientifica abbiano ragione, proprio considerando la stessa difesa di Boston. È vero che il virus chimerico ottenuto è meno letale di quello originale; ma è di gran lunga più letale di Omicron, e di questo ceppo mantiene le capacità di immunoevasione e alta propagazione, come gli stessi autori hanno dimostrato. Siccome, alla fine, ciò che importa è la mortalità di un virus, e non solo la sua letalità – il numero di morti che è in grado di fare in una popolazione, e non solo quanti fra i malati muoiono – ed essendo chiaro che un’infettività e immunoevasività pari a quella di Omicron nel momento attuale porterebbero, se combinati ad una letalità come quella del virus Wuhan, a una catastrofe, è vero che l’esperimento condotto a Boston fa sorgere più di un dubbio circa il rapporto tra costi e benefici e circa le autorizzazioni che simili ricerche dovrebbero ottenere. Come ho già scritto in passato, io credo che, particolarmente in una fase come quella attuale, certi tipi di attività sperimentale dovrebbero essere fortemente limitati; e, a quanto pare, anche il NIAID, l’ente regolatore avrebbe dovuto valutare preliminarmente e nel dettaglio la ricerca in questione, non è stato informato correttamente, nonostante sia presente nella sezione dei ringraziamenti del preprint.

Magari, formalmente, ciò che si è fatto non è ricerca gain-of-function; come biologo molecolare io credo che lo sia, ma in ogni caso qui il punto non è formale, quanto sostanziale, e legato al pericolo in sé di quanto è stato fatto. Certo, gli standard di sicurezza e i laboratori utilizzati sono tali da ridurre il rischio al minimo possibile, quando si lavora con patogeni pericolosi; ma per quale motivo tale rischio deve essere corso? Cosa abbiamo ottenuto, da esperimenti in topo, che già davvero non sapessimo o non intuissimo, e soprattutto con quali benefici chiari per quel che riguarda la terapia o il contenimento del virus? Quanto possiamo concederci il lusso di giocare con mutanti più letali di Omicron, ma di pari capacità diffusiva ed evasiva nei confronti dell’immunità di popolazione?

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