Il foglio salute

L'errore di normare il fine vita con leggi regionali

Rosaria Iardino*

Scaricare la responsabilità sulle regioni potrebbe creare diseguaglianze territoriali e nemmeno un atto ministeriale servirebbe a normare in modo equilibrato il fenomeno. Soltanto un intervento normativo porrebbe limiti e confini

Nel paese, nel nostro paese, la sentenza 242 della Corte costituzionale pone l’obbligo di regolamentare il suicidio assistito, e quella sentenza in chiusura coinvolge i comitati etici ai quali si chiede affrontare le richieste che perverranno da quei pazienti che in coscienza chiederanno di essere aiutati a mettere fine alle loro sofferenze. Sofferenze che dovrebbero essere misurate da chi? Con quali indicatori? Il punto è: possiamo ridurre la vita a degli indicatori che per forza di cose sono soggettivi? Come faranno i comitati etici, e i loro componenti, ad assumere tale decisione? Quello del fine vita è un tema che deve prevedere una legge nazionale che ne determini i confini, i limiti e le responsabilità. Non è accettabile che nelle segreterie del ministero della Salute siano pochi quelli che decidono quali saranno le responsabilità delle quali altri dovranno farsi carico. Penso che il ministro Speranza dovrebbe proporre un testo di legge in Parlamento e che lì si debbano decidere, con la legge di Stato, le regole per rendere operativa tale sentenza. E sempre in riferimento alla sentenza, per ottemperare alla 242 dovrebbe essere lo stesso ministero a costituire una commissione nazionale che in attesa della decisione parlamentare risponda alle richieste di chi vuole mettere fine alla propria vita.


Evidentemente scaricare la responsabilità e la decisione sulle regioni, con la costituzione ad hoc del comitato etico che dovrà affrontare tale tema senza indicazioni di legge, creerà delle diseguaglianze territoriali, e questo perché i comitati etici sono composti da persone che hanno, legittimamente, le loro convinzioni e la loro sensibilità. Ci troveremo in una situazione per cui una persona che vive in una regione e vede rifiutata la sua richiesta di suicidio assistito potrà chiederla in un’altra regione? Ci accingiamo a creare un turismo regionale del fine vita? E quali frustrazioni può vivere un paziente che sa che nella regione accanto c’è una maggior predisposizione all’approvazione di tale richiesta? E non ultimo: in quali strutture potrà avvenire? Strutture ospedaliere, domiciliari, o strutture appositamente dedicate?


Le domande sono molte, troppe, e il tema, va da sé, è serio, urgente e delicato e non è possibile affrontarlo con un atto ministeriale per due semplici motivi: il primo riguarda la tutela del diritto del paziente ad agire in un perimetro normativo chiaro che gli dia delle garanzie, e il secondo implica una scelta chiara del paese e quindi dei rappresentati dei cittadini che siedono in Parlamento. Un atto ministeriale può avere vita breve e durare il tempo di un governo, mentre per abolire una legge, al contrario, ne occorre un’altra. Ritengo dunque sia utile investire del tempo nella discussione in entrambe le Camere per un unico fine, ovvero avere garanzie e tutele per tutti, pazienti, familiari e decisori. Qui si parla di vita, e non si può sbagliare. 

 

*Presidente Fondazione The Bridge

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