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cattivi scienziati

Sì alle alternative, ma non vaccinarsi non è un'opzione

Enrico Bucci

Un calcolo preciso del rapporto rischio/beneficio della somministrazione di AstraZeneca ai giovani non è possibile. Per fortuna la disponibilità di altri vaccini permette di trascurare queste incertezze. Ma in caso contrario, lasciar circolare il virus non avrebbe comunque senso

Come succede periodicamente, l’opinione pubblica italiana è di tanto in tanto ostaggio di discussioni inerenti argomenti che poco padroneggia; e come succede soprattutto dall’inizio di questa pandemia, la comunità scientifica nostrana non aiuta a fare chiarezza, perché ognuno pretende di dire la sua, senza preoccuparsi del fatto che parole diverse e accenti diversi, persino quando siano dette per significare la stessa cosa, fanno un effetto ben diverso e molto cacofonico su chi non ha gli strumenti cognitivi specialistici dei ricercatori. Attualmente, stiamo vivendo questa situazione per il nuovo appassionante tema di discussione da bar, quello della vaccinazione dei giovani con il vaccino di AstraZeneca e della valutazione del connesso rapporto rischi/benefici. Proviamo a partire da qualche concetto semplicissimo, per inquadrare la questione e vedere se si riesce a fare una qualche chiarezza.

Innanzitutto, focalizziamoci sul rapporto rischio/beneficio: di fatto, il grosso della discussione in questo momento verte in realtà su un paragone tra i rischi che si corrono vaccinandosi rispetto a quelli che si corrono non vaccinandosi, ignorando completamente l’aspetto dei benefici che si hanno per l’una o per l’altra scelta. Seppure sia questa una valutazione impropria, per il momento seguiamo questo modo di ragionare: il rischio di effetti collaterali gravi del vaccino, si dice, sarebbe per certe fasce di età e specialmente per le donne paragonabile o maggiore di quello corso a causa del virus. Questa affermazione, tuttavia, non ha valore assoluto: infatti, mentre il rischio inerente alla vaccinazione può essere assunto come costante, quello inerente al virus dipende dalla probabilità di infezione e, una volta infetti, dalla probabilità di avere effetti clinici gravi da questa. Il rischio costituito dal virus, cioè, è un rischio composto, e in particolare il primo termine – la probabilità di infettarsi – dipende dalle circostanze: prima fra tutte, la quantità di virus in circolazione. Se questa grandezza è molto piccola, il rischio connesso al virus per l’individuo decresce considerevolmente; e in conseguenza di ciò, per categorie di persone (giovani donne) che con il vaccino di AstraZeneca mostrano rarissimamente effetti collaterali gravi, esso può arrivare ad essere inferiore al rischio vaccinale (che, ricordiamolo, è indipendente dalle circostanze).

Dunque è vero che, al basso tasso di circolazione virale attuale, per categorie che con frequenza molto bassa – diciamo 1 su 100.000 – incorrono in gravi effetti avversi, da un punto di vista individuale potrebbe darsi che sia ugualmente rischioso vaccinarsi rispetto a non vaccinarsi con AstraZeneca; il calcolo preciso, tuttavia, non è affidabile, vista la difficoltà di stimare entrambi i rischi, fondati su eventi rari (quello legato ai vaccini, sempre, quello legato al virus, adesso che il virus è poco diffuso). In queste condizioni di incertezza, fortunatamente, disponiamo di altri vaccini, in cui i rischi sono così bassi che non vi sono incertezze; pertanto, non vi è nulla di male o di insolito a decidere che, data la fase epidemica e data la disponibilità di alternative, si ricorra per fasce specifiche di popolazione a certi vaccini, anziché altri.

Naturalmente, la discussione sin qui fatta non è una discussione sul rapporto rischio/beneficio, ma sul paragone fra rischi dovuti a scelte alternative; perché se invece si comincia a ragionare anche sui benefici, e tra questi si pongono non solo quelli individuali, ma anche quelli sociali (prevenzione dell’infezione di soggetti fragili, prevenzione dell’emergenza di mutanti dovuti alla continua circolazione virale), la vaccinazione con qualunque prodotto disponibile diventa sempre favorita. Proprio per questo motivo, l’unica opzione non disponibile, né eticamente né in termini di politica sanitaria, è quella di non vaccinarsi. Finché abbiamo scelta, dunque, ben venga la differenziazione tra fasce di popolazione in ordine al prodotto da utilizzare; se per caso non vi dovessero essere altri prodotti, tuttavia, lasciare scoperte fasce di popolazione che hanno un piccolissimo rischio, consentendo al virus di continuare a circolare per più tempo ed esponendo a rischi inutili anche soggetti più fragili o quel 5 per cento minimo di popolazione che non risponde al vaccino, non avrebbe senso. 

Dunque, concludiamo: le scelte di politica vaccinale sono adattative, e dipendono sia dal livello di virus circolante, sia da quello che man mano apprendiamo sui vaccini, sia infine in modo cruciale dalla disponibilità di vaccini diversi in quantità sufficiente; posizioni assolute e dogmi o proclami lasciano il tempo che trovano.
 

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