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Lasciare i tamponi nel green pass, e farli pagare allo stato

Michele Boldrin e Carlo Stagnaro

L’obiettivo del passaporto vaccinale in sé è condivisibile, ma le ipotesi d’implementazione appaiono deludenti e discriminatorie

La pandemia, il lockdown e la didattica a distanza nelle scuole hanno penalizzato soprattutto gli individui e le famiglie a basso reddito e bassa istruzione, e i giovani in generale. Occorre pertanto evitare politiche ugualmente punitive nell’uscita dall’emergenza.  E’ il caso del “green pass”. L’obiettivo in sé è condivisibile: condizionare l’utilizzo degli spazi pubblici chiusi e dei mezzi di trasporto collettivi a misure precauzionali per mantenere sotto controllo la velocità di diffusione del virus.

 

Purtroppo, le ipotesi d’implementazione del green pass appaiono deludenti e discriminatorie. Il principio a cui sembrano ispirarsi è di permettere completa libertà di movimento solo a persone che possano dimostrare d’essere immuni o, almeno, di non essere risultate contagiose nelle 48 ore precedenti. Consideriamo questi due criteri nella loro concreta applicazione.

 

 

A oggi, solo una minoranza ha potuto ottenere l’immunità attraverso la guarigione dalla malattia o la vaccinazione. Soltanto 15,5 milioni hanno ricevuto almeno una dose e meno di 7 milioni hanno completato il ciclo. Non ha molto senso considerare “vaccinati” solo questi ultimi: l’esperienza britannica suggerisce che la prima dose è sufficiente ad abbattere sostanzialmente il rischio di contrarre la malattia in forma grave e/o di contagiare altri. L’evidenza sperimentale mostra che la riduzione nella probabilità del contagio fra prima e seconda dose risulta piccola e l’evidenza acquisita sul terreno lo conferma. Nel Regno Unito le morti giornaliere sono circa 0,20 per milione di abitanti, contro 2,65 in Germania e 4,13 in Italia.  Tra i restanti 45 milioni di italiani ci saranno sicuramente degli incalliti no vax, ma la maggior parte non ne ha colpa. Semplicemente non è arrivato (e in alcuni casi non arriverà per mesi) il loro turno. Addirittura, per 9 milioni di bambini e adolescenti non c’è alcun vaccino autorizzato. Una normativa che escluda a priori i due terzi della popolazione dal diritto di poter viaggiare appare assurda.

 

In alternativa alla vaccinazione o al certificato di avvenuta guarigione, è stato proposto il requisito di un tampone negativo nelle 48 ore precedenti. Due le obiezioni: in primo luogo, il tampone non fornisce alcuna informazione sul futuro. Inoltre, mentre il vaccino è gratis, il tampone ha un costo che, in alcune regioni, è considerevole (circa 40 euro). La prima critica ci sembra assai debole. E’ vero che una persona oggi negativa potrebbe ammalarsi domani, ma l’obiettivo non è quello (impossibile) di azzerare il contagio, bensì di ridurne la probabilità. Per giunta, ciò che stiamo osservando sono gli spostamenti: e ciò che vogliamo prevenire è che un infetto esporti inconsapevolmente il virus dalla regione A alla regione B. Un tampone negativo fornisce la ragionevole aspettativa che si muoveranno quasi esclusivamente persone non contagiate.

 

La seconda obiezione è più seria. Una giovane coppia con figli sarebbe gravata da un onere difficile da sostenere: non solo – con ogni probabilità – nessun componente del nucleo famigliare è ancora stato vaccinato, ma essi hanno statisticamente un reddito inferiore alle media. Per questo, lo stato dovrebbe farsi carico del costo di un certo numero di tamponi a favore dei soggetti non vaccinati, per esempio due al mese, nelle strutture convenzionate, negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie. Costoso? In parte sì ma, per una volta, sembra un tipo di spesa pubblica “corrente” con un moltiplicatore alto e benefici, in termini di giustizia sociale, evidenti.

 

Possiamo stimare il costo per le finanze pubbliche sotto alcune ipotesi conservative: assumendo otto milioni di prime dosi al mese, i non vaccinati a giugno saranno 37 milioni, a luglio 29 e ad agosto 21. Supponiamo che tutti facciano due tamponi al mese al costo per lo stato di 20 euro a tampone (stiamo esagerando): la spesa sarebbe circa 3,5 miliardi di euro, grossomodo la somma tra la ricapitalizzazione di Alitalia e quanto il Pnrr prevede per le piste ciclabili. Naturalmente, ciò richiede una importante crescita della capacità di tamponamento (magari sdoganando anche a tamponi salivari). La nostra risposta è banale: bene, è uno dei casi in cui lo stato può permettersi di spendere e perfino di sprecare. Se esiste del debito buono, è proprio quello che consente di riprendere l’attività economica.

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