Il presidente del Consiglio Mario Draghi parla in Senato (Ansa)

Recovery Italia

Ecco il vero peccato dello stato in pandemia: non accentrare

Agostino Miozzo

La gestione delle emergenze sanitarie nazionali dipende troppo dalle regioni. Una svolta per un vera ripartenza

Chiunque abbia lavorato qualche tempo su temi concernenti la protezione dei civili, in Italia o nel mondo, si è dovuto confrontare con gli effetti di eventi calamitosi del passato che spesso hanno lasciato segni indelebili del loro passaggio. L’attenta analisi di quei segni ha sempre dato importanti indicazioni su come proteggerci nel futuro in caso di nuove calamità. Studiare l’impatto, sull’ambiente e sulle persone, degli eventi naturali (piuttosto che quelli provocati dalla mano dell’uomo) è un passaggio fondamentale per comprendere cosa è successo nel corso della nostra storia, e capire perché ci siamo fatti trovare impreparati nell’affrontare quella determinata emergenza alla quale abbiamo pagato un così grande prezzo in vite umane e in beni andati perduti. In protezione civile si fa spesso ricorso alle teorie, che per semplificare definiamo darwiniane, che in estrema sintesi ci dicono che l’impatto di violenti eventi naturali favorisce la selezione della specie: i più forti sopravvivono, i deboli soccombono, mentre le specie si rafforzano ricercando condizioni più idonee alla loro vita. 

 

La storia dell’uomo, in effetti, dà evidenza di questa evoluzione. Un’evoluzione che troppo spesso dimostra che non tutti gli uomini e non tutte le aggregazioni sociali sono uguali; qualcuno impara dalle esperienze del passato, altri tendono ad avere la “memoria corta” e a rimuovere velocemente quei segnali di pericolo che madre natura periodicamente ci offre. Analizzando l’emergenza che da più di un anno sta interessando l’intero pianeta e l’intera razza umana, possiamo fare alcune valutazioni sulla genesi e sull’evoluzione di questa catastrofe. La prima considerazione ci impone un’analisi storica della nostra conoscenza delle pandemie e, di conseguenza, delle azioni che avremmo dovuto mettere in atto per fronteggiare l’impatto della crisi con azioni e meccanismi preventivi o quantomeno preparatori. La peste nera, la “spagnola”, il vaiolo, la poliomielite, la Sars, l’Hiv, l’ebola: sono termini noti non solo agli esperti virologi o epidemiologi ma a gran parte della popolazione. Di queste pandemie si sa molto dal punto di vista clinico e della modalità di trasmissione. Analizzando l’impatto che il Covid-19 ha avuto in Italia, vorrei concentrare le mie considerazioni su due ambiti del nostro vivere sociale che hanno dimostrato particolari difficoltà ad affrontare l’emergenza: la sanità e la scuola. Che i sistemi sanitari del nostro paese (al pari di quelli di gran parte del resto del pianeta) non fossero adeguatamente preparati ad affrontare la crisi sanitaria è assodato e sotto gli occhi di tutti. La pandemia ha violentemente evidenziato tutti i limiti delle strutture sanitarie esistenti, con l’assenza pressoché assoluta di attività e cultura di prevenzione e preparazione all’emergenza, e amplificando tutti gli errori dovuti a politiche sanitarie avventate e poco lungimiranti nel nostro paese.

 

È ben noto che tutte le grandi emergenze hanno questo potere: incidere e amplificare le debolezze dei sistemi esistenti, e il Covid-19 non ha fatto eccezioni. Un’aggravante a queste considerazioni è che nel nostro sistema (sanitario e scolastico) non esiste una cultura di governo delle emergenze; quella cultura che imponga per esempio la presenza nei rispettivi dicasteri di un servizio incaricato di rilevare, a livello nazionale, la gestione del settore in caso di crisi. Una competenza che, se supportata adeguatamente dal potere politico centrale, avrebbe capacità di superare quella “libertà” di indirizzo operativo troppo spesso imposta da autorità regionali piuttosto che municipali o provinciali. Un forte potere di indirizzo tecnico delle istituzioni centrali (come avviene per la Protezione Civile con il suo potere di ordinanza) renderebbe superflua l’ipotesi tanto ventilata di ricorso all’articolo 120 della Costituzione che prevede il potere di sostituzione delle autorità locali qualora non vengano garantiti i diritti costituzionali. 

 

Al ministero della Salute non è mai stato istituito un servizio di gestione delle emergenze sanitarie nazionali, delegando questa componente del lavoro alle strutture territoriali. Questa delega ha dimostrato però tutti i limiti oggettivi che impediscono alla struttura di vertice, nel momento dell’impatto della crisi, di avere il polso della situazione e quindi essere in grado di gestire la risposta del territorio. Le immagini di ospedali totalmente impreparati ad accogliere i pazienti sono a ricordarci che la gestione delle crisi non si improvvisa, ma si costruisce nel tempo, investendo in risorse umane e materiali. Importanti risorse e non briciole di bilancio destinate all’acquisizione di attrezzature, forniture, spazi dedicati, percorsi informativi e formativi per personale che improvvisamente potrebbe essere chiamato a svolgere azioni di emergenza non abituali. Questa, in linguaggio tecnico, si chiama prevenzione non strutturale e fa parte del corredo professionale di ogni protettore civile. La scuola ha scontato un problema analogo, vittima di mali antichi che da noi, a differenza di altre realtà del nord Europa, eredita le classi pollaio, i trasporti per gli studenti assolutamente inefficienti, carenze di adeguate tecnologie, di risorse umane e tanti altri limiti ben noti a chi vive il mondo della scuola. Tutti limiti che, sin dall’inizio della pandemia, si sono scontrati violentemente con le indicazioni date dai sanitari come unica strategia per ridurre la trasmissione del virus: distanziamenti, spazi, strumenti di protezione individuale, igiene etc.

 

Le citate teorie darwiniane dell’evoluzione ci dicono anche che da una grande catastrofe una struttura sociale può riemergere, e se mette in pratica le indicazioni che la crisi ha fornito, quel gruppo sociale sarà decisamente più forte e pronto ad affrontare altri possibili eventi negativi con una resilienza assolutamente rafforzata. Il “piano Marshall” che ci apprestiamo a realizzare, grazie ai fondi dell’Ue, potrebbe aiutarci a restituire, alla fine di tutto il percorso, una sanità e una scuola migliori e più adatte ai tempi, oltre che essere adeguate ad affrontare nuove, potenziali crisi. Queste risorse se ben spese consentiranno di riportare la nostra sanità a livelli compatibili con le esigenze del territorio, compensando quegli squilibri che ci hanno visto totalmente impreparati con una medicina di base quasi inesistente su gran parte del territorio e un sistema di governo delle emergenze altrettanto impotente. La scuola che ha messo in tremenda luce le proprie criticità strutturali potrà beneficiare delle nuove risorse per riportare gli spazi disponibili, le attrezzature, lo staff ai livelli necessari per poter godere di una scola che svolga a tutti gli effetti il ruolo che ci si aspetta in un paese civile.

 

Di questi argomenti e di queste prospettive dovremmo parlare oggi, sostituendo gli interminabili e noiosissimi dibattiti televisivi che per mesi ci hanno accompagnato e dove un numero sterminato di neo virologi, neo epidemiologi, neo “emergenziologi” ci hanno spiegato tutto e il contrario di tutto, senza sforzarsi di immaginare il paese, la sua sanità e la scuola nell’Italia post Covid-19. Analizzare con attenzione e umiltà gli errori del passato è l’unica strada percorribile per pianificare in modo intelligente e virtuoso il nostro futuro e la rinascita di quei servizi sociali che la pandemia ha colpito così duramente. Se invece sapremo usare le ingenti risorse finanziarie oggi disponibili solo per un lauto banchetto, allora siamo certi che la prossima emergenza ci troverà preparati come lo siano stati con l’arrivo di Sars-CoV-2

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