Cattivi scienziati

La strana frenesia dello Spallanzani per produrre lo Sputnik

Enrico Bucci

“Correrre, correre, correre”, incita il direttore sanitario dell’ospedale. Ma i dati non tornano e la produzione è più complessa di quella di altri vaccini

Anticorpi nel 100 per cento dei vaccinati, secondo i dati provenienti dall’Argentina sul vaccino russo Sputnik V. Così Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani, descrive i risultati che si sono ottenuti in Argentina, in aggiunta a quelli che sono stati pubblicati su Lancet. Lo Spallanzani, Vaia in testa, si è in queste settimane molto speso per incontrare i ricercatori russi, dichiarando che “ci siamo resi disponibili a facilitare la produzione del farmaco” perché “bisogna correre, correre e correre”.

 
Ma chi si è reso disponibile alla produzione, e su incarico di chi? E perché lo Spallanzani si muove come se avesse un ruolo di rappresentanza istituzionale, attraverso dichiarazioni come quelle elencate e molte altre?

 
Intanto, Vaia – e chiunque citi i dati provenienti dall’Argentina – farebbe bene a farlo in maniera completa. Quando si parla di anticorpi indotti nel 100% dei vaccinati in Argentina, bisogna specificare bene quali anticorpi e a che livello. Perché, per esempio, se si guardano i dati recentissimamente comunicati dalla fondazione argentina “Instituto Leloir”, riferiti ai risultati ottenuti in 7 diversi ospedali, si scopre che nei soggetti che non siano stati precedentemente infettati, il fattore di diluizione degli anticorpi contro RBD nei sieri dei vaccinati (un numero che misura direttamente la loro efficacia) è risultato mediamente pari a 200 dopo la prima dose e a 1.600 dopo la seconda; questo numero è molto diverso da 12.800, il valore pubblicato nello studio di Lancet che Vaia pure cita. Secondo i dati argentini, 12.800 si ottiene in un solo caso: quando i soggetti siano stati previamente infettati dal virus, ed è un livello che si raggiunge anche dopo una sola dose di vaccino – dimostrando che, in realtà, quei soggetti sono già immunizzati. Dunque, se c’è una cosa che i dati argentini dimostrano è che il risultato sul campo del vaccino sembra diverso e inferiore a quanto annunciato, in buon accordo con quanto si osserva per altri vaccini basati su adenovirus, ma ben distante da quanto pubblicato. Anche per gli effetti collaterali ci sono differenze rispetto a quanto pubblicato: fortunatamente, non nella severità dei sintomi indotti, ma solo nella frequenza di quelli più comuni (frequenza molto maggiore di quanto descritto).

  
Dunque, alla fine, se si vogliono prendere per buoni i dati argentini, come Vaia sembra fare, quello che emerge è un vaccino che non sembra migliore di qualunque altro basato su adenovirus, ma con un’importante differenza: per produrlo, servono due linee diverse, una per l’adenovirus 26 ed una per l’adenovirus 5. E allora perché bisogna “correre, correre, correre” a produrre questo vaccino e non, per esempio, quello di J&J, basato sul solo adenovirus 26? 

 
E perché a mettere pressione in questo senso sono la Regione Lazio e lo Spallanzani, adombrando che la produzione potrebbe partire proprio in Lazio? Sulla base di quali dati si decide di spingere persino AIFA, ricordando che l’autorizzazione può arrivare senza attendere EMA?

 
Non di corse c’è bisogno, ma di chiarimenti e di evidenze solide; perché la corsa da fare è quella in nome dell’interesse pubblico, il quale deve essere dimostrato con assoluta trasparenza.

  

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