Bambini malati di tubercolosi ricoverati al sanatorio di Muurame, in Finlandia (foto: Wikimedia Commons)

Una malattia da romanzo

Marco Archetti

Mann, Blecher, Satta, Vogel. Così il mito della tubercolosi come morbo redentore e del sanatorio come luogo di purificazione ha ispirato la letteratura del secolo scorso

Prima della Rivoluzione industriale fu associata al vampirismo – colpa degli occhi arrossati, dell’incarnato cereo, degli sbocchi di sangue. Poi si ritenne che cogliesse coloro che di notte venivano “cavalcati dalle streghe” – invece era solo l’aria smunta da insonne con la tosse (“Verde è la pianta della vita, ma in viso non è il colore più adatto”, scriveva Thomas Mann). Poi che fosse la malattia tipica degli onanisti frenetici – sorvoliamo. Poi che per un artista fosse addirittura auspicabile perché, durante il lento e inesorabile decorso, si diceva garantisse impensabili esplosioni di creatività.

 

Vecchia quanto la storia del genere umano, ingrediente primario dello stile di vita bohemien al punto che le ragazze tutelavano il proprio pallore per sembrarne affette, ideale romantico nonostante falciasse soprattutto contadini, operai e tagliatori di pietra (Lord Byron ci mise del suo scrivendo che gli sarebbe piaciuto morirne), la tubercolosi – o tisi, consunzione, mal sottile, mal di petto, scrofolosi, peste bianca, “chiuso morbo” per Giacomo Leopardi – vanta uno sterminato elenco di vittime rilevanti: da Giovan Battista Pergolesi a John Keats, dalle sorelle Brontë a Niccolò Paganini, da Fryderyk Chopin a Guido Gozzano (“Mi auscultano con ordegni davanti e di dietro, e sentono chissà quali tarli…”), da Franz Kafka ad Anton Cechov (mirabili le sue geremiadi nell’antologia epistolare “Lo scrittore Cechov non ha dimenticato l’attrice Knipper”, Il Melangolo, 1989), da George Orwell a Louis Braille, da Baruch Spinoza a Erwin Schrödinger. La contrassero anche Maksim Gor’kij (tornò utile a Stalin per toglierlo di mezzo), Dashiell Hammett (la prese in guerra) e Charles Bukowski (gliela diagnosticò un veterinario, ai medici di Beverly Hills sfuggì perché disabituati a identificarla – malattia da poveri).

 

Eppure la tubercolosi ha una storia antica: i batteri che la causano sono comparsi almeno 150 mila anni fa e le prime tracce sono state rinvenute in un osso della zampa di un bisonte nel Wyoming. La grande diffusione scoppiò 4.000 anni orsono, l’addomesticamento dei bovini potrebbe aver facilitato il passaggio del batterio all’uomo. In Egitto era malattia comune, ce lo dice la mummia del sacerdote Nesperhan che, analizzata da sir Marc Armand Ruffer nel 1921, riporta lesioni tipiche del morbo di Pot (gibbo tubercolare), e anche i papiri di Ebers, trattati di medicina del 1550 a.C. che la descrivono minuziosamente. L’homo erectus ne soffriva. Nel Levitico si legge: “Manderò contro di voi il terrore, la consunzione e la febbre, che vi faranno languire gli occhi e vi consumeranno la vita”. Nel solo diciannovesimo secolo causò cento milioni di morti in tutto il mondo. Come il Covid, si trasmetteva per via aerea, ma l’isolamento degli ammalati fu deciso per la prima volta solo nel 1735 dal Consiglio di Sanità della Repubblica di Lucca. La bile porcina e i cataplasmi di fico sembrarono a lungo il medicamento più efficace – per non dare spunti ai No vax: badare bene al verbo “sembrarono”. Insomma, il Mycobacterium tubercolosis è stato uno dei più fedeli compagni della storia dell’umanità, ma è nel 1882 che il batteriologo Robert Koch lo individuò come agente eziologico della malattia. In Italia la denuncia della Tbc si rese obbligatoria dal 1901, mentre a Venezia lo era già nel 1722, limitatamente ai casi con esito infausto. Fino al 1927 gli ospedali privi di reparti di isolamento respingevano i malati, ma più che i sanatori, a rendere la Tbc meno violenta furono i vaccini. Le cosiddette Cittadelle della Malattia che proliferarono tra Ottocento e Novecento, epoca del picco infettivo, si rivelarono terreno favorevole più che altro per il nostro immaginario: il mito della tubercolosi come malattia redentrice e del sanatorio come luogo di purificazione alimentarono la produzione letteraria del primo quarantennio del secolo scorso con un gran numero di capolavori.

  

Il romanzo simbolo è “La Montagna incantata” di Thomas Mann, che però, già nel 1903, col racconto “Tristano” aveva ambientato in un sanatorio la storia d’amore tra lo scrittore Spinell e la signora Klöterjahn. “Per gli ammalati di petto, Einfried è un luogo veramente raccomandabile. Qui si fermano non solo i tisici, ma gli infermi di ogni genere. Qui ci sono ammalati gastrici, come la moglie del magistrato Spatz, signori con disturbi di cuore, paralitici e nevrastenici nei vari stadi della malattia. C’è un generale diabetico che qui consuma la sua pensione, […] c’è la cinquantenne moglie del pastore Höhlenrauch che dopo aver dato alla luce il suo diciannovesimo figlio ha perso del tutto la capacità di formular pensieri. Di tanto in tanto muore qualcuno dei gravi che giacciono nelle loro stanze e non compaiono né ai pasti né nelle sale di ritrovo, e nessuno lo viene a sapere. Nel silenzio della notte, l’ospite cereo è portato altrove e l’attività di Einfried continua, coi suoi massaggi, le applicazioni elettriche, le iniezioni e le docce…”.

  

Vent’anni dopo scrisse il romanzo che lo incoronò, ispirato alla degenza della moglie nel sanatorio Berghof di Davos, lo stesso in cui Paolo Sorrentino avrebbe girato “Youth”. La storia è nota: Hans Castorp, giovane ingegnere di Amburgo, “uomo mediocre in senso onorevole”, va a trovare Joachim, cugino tubercolotico, e in seguito a un esame ai bronchi sarà costretto a rinviare la propria partenza. Una cosa da nulla, passeranno sette anni. Nel frattempo si mescolerà ai vecchi e nuovi degenti, s’impantanerà in disquisizioni filosofiche, si innamorerà di madame Chauchat (le pagine che raccontano la sua dichiarazione d’amore sono tra le più belle di tutta la letteratura del secolo scorso) ma stenterà tenacemente a credere alla propria malattia, percependosi sempre come di passaggio, sempre sul punto di tornare giù, in pianura, dove qualcosa lo aspetta: ma cosa? Sbiadirà il passato, sbiadirà il presente, e il tempo, insieme all’illusione della salute, si dissolverà. Hans Castorp capirà che alla vita è negato di comprendere se stessa, eppure proverà instancabilmente a comprendere, sia la vita sia la morte – o meglio, non tanto la morte: la propria moribilità – scosso da squarci filosofici, eccitato da Settembrini, umanista allievo di Carducci, e affascinato da Naphta, cinico radicale, vagando in una nebbia perfetta d’incomprensione, in quello stato di malattia che è esistere, cioè non esser vivi e nemmeno esser morti, ma sospesi eternamente, e appesi a un giudizio che si attende come un refolo di purezza, ossigeno di una pur breve chiarezza per il polmone malato della propria vita. “Un giorno Castorp aveva visto, in fondo alla camera, il cereo profilo di un giovane con la barbetta rada che aveva girato lentamente i grandi occhi verso la porta. Era il primo moribondo che vedeva in vita sua. Com’era parsa dignitosa, sul guanciale, la testa del giovane. Com’era stato significativo lo sguardo degli occhi troppo grandi, quando li aveva girati verso la porta. Castorp, ancora preso da quella vista fugace, provò istintivamente a fare gli occhi grandi, significativi e lenti come quelli del moribondo, e con quegli stessi occhi guardò una signora che, uscita da una porta dietro di lui, lo sorpassava”. E’ madame Chauchat, dama né bella né affascinante, eppure per Castorp attraente, alimentatrice del mistero inspiegabile di cercare sempre qualcosa dentro la vita degli altri, con gli accenti gaglioffi che ci detta la nostra quando la sentiamo in pericolo. “Guardando il suo braccio Castorp sognava. Come si vestono le donne! Mostrano un po’ qua e un po’ là, del collo e del seno, trasfigurano le braccia con tulle trasparente… Alle donne è lecito vestirsi in modo fiabesco, tale da renderci felici. Dio mio, com’è bella la vita!”. Nel frattempo, la valle alla quale Castorp dalla sedia a sdraio rivolge ogni sera le sue trascendenti interrogazioni perpetua nel silenzio le sue vette, le sue pareti, la sua maestosa indifferenza e, nel buio, solo il sussurro sinistro dell’attività lungo la pista dei bob, giù dalla quale, col calar delle tenebre, vengono sospinte la bare dei defunti. Poi, un giorno, torna la vita: il cugino Joachim se ne va, è ristabilito – non lo è, si convince di esserlo. Castorp, invece, è guarito per davvero, ma a quel punto non può più credere alla salute. “Il medico lo prese per un braccio e lo auscultò. E sentenziò: ‘Lei può partire’. Castorp balbettò: ‘In che senso? Come mai? Sono sano?’”. Sbalordito, rifiuterà di sciogliere il proprio personale lockdown lasciando il sanatorio. Ma continuerà per giorni a pensare al cugino. “Sarebbe sceso con la ferrovia fino a laggiù a Landquart, a Romanshorn, poi avrebbe attraversato il lago ampio e profondo, e tutta la Germania fino a casa. Là sarebbe vissuto, in pianura, tra persone che non avevano un’idea di come si debba vivere, che non conoscevano l’uso del termometro, l’arte di avvolgersi nelle coperte, di infilarsi nel sacco a pelo, la triplice passeggiata e… Difficile elencare tutte le cose che non si sapevano laggiù”.

  

Perché lassù e laggiù sono stati d’animo. E tra lassù e laggiù c’è di mezzo la sofferenza, che non è una condizione, ma un rango. A raccontarlo, un altro splendido romanzo pubblicato nel 1937, “Cuori cicatrizzati” (Keller, pp. 237, €15,50 euro), scritto da Max Blecher, ebreo rumeno morto per tubercolosi ossea a soli 29 anni. Il protagonista, Emanuel, è studente di chimica. “Da quando aveva visto il malato che camminava scalciando era stato colto da profonda tristezza. Guardava con un’enorme stretta al cuore il modo in cui gli inservienti spingevano le barelle. Questo contrasto tra il condurre una vita quasi normale e giacere imprigionato dentro un gesso con le ossa rose dalla tubercolosi, era doloroso e triste: esistere, e pur non essere completamente vivo”. Ricoverato nel sanatorio di Berk (“Tutti i medici, i farmacisti e i lettighieri sono ex malati che non sono riusciti a vivere altrove, qui si è accumulata tutta la malinconia del mondo…”) Emanuel si innamorerà, ma il desiderio renderà la sua ingessatura una galera, così fuggirà in esilio dentro un altro esilio, perché la vita è irredimibile e la guarigione spietata quanto la malattia. A fargli compagnia, l’ultima verità dell’amico Quintonce: “Io sono malato da quando ero piccolo, ma non sono un eroe. Per essere un eroe occorrono energie e volontà per sconfiggere un gran numero di difficoltà. Nel corso di un intero anno, un malato sviluppa tanta energia e volontà quanta ne occorre per conquistare un impero… Salvo il fatto che le consuma in perdita. Ecco perché i malati possono essere definiti, al massimo, come eroi negativi: ciascuno di noi è un ‘Colui che non è stato Cesare’”.

  

Racconto tutto in negativo, montagna incantata senza incanto, romanzo della vita che latita e dell’ombra che grava, dell’amore minato dal Decreto e di un’umanità che non ce la fa a morire ma non può vivere, anche “La veranda” di Salvatore Satta (Adelphi, pp. 187, €20 euro). Da poco rientrato in catalogo, scritto nel 1928 e ritrovato solo nel 1981, offre una parata di derelitti alle prese con se stessi – la vera malattia. “C’è un’ora della giornata in cui il silenzio occupa la veranda: ed è la sera, quando le ombre si fanno lunghe e gli alberi si addormentano. Tutti i giorni a quell’ora i mortali di quassù attendono alla triste bisogna di misurare la febbre. Immobili sulle sdraio cogli occhi concentrati in un punto lontano, i profili resi un po’ animaleschi dal protendersi delle mascelle e delle labbra nella stretta del Kramer, in quell’infinito quarto d’ora essi rivivono, ciascuno dentro al petto travagliato, nostro Signore quando sudò sangue tra gli ulivi. In ciascuno si compendia tutta la miserevole storia dell’uomo”.

  

Stessa concentrazione tragica in punta di termometro anche nel romanzo “La cascata” (Passigli, pp. 114, €14,50 euro) di David Vogel: biografia orribilmente sconciata dalla disgrazia della Storia, fu autore di pochi romanzi di grande letteratura. Come questo. “Sulla terrazza inondata di sole, i malati sono in piedi o seduti, i termometri ficcati in bocca come sigarette. Alcuni stanno poggiati con la schiena al parapetto, la testa sporta verso l’alto a scambiare qualche frase con le ragazze chine sulle ringhiere dei piani superiori”. Ma non ci si inganni: anche qui predomina la sottrazione, e l’amore non si può fare e non si può dire, perché – come sostiene Ornik, indimenticabile protagonista – “non ci si può distrarre mai dai polmoni, non è permesso all’uomo malato che danneggia i sani col semplice respiro”. Il sanatorio di Vogel è l’immensa eco di una cascata, più notti sconfinate, più pensieri che perseguitano, perché non si può definire vita quell’assistere alla vita. “Scorsero davanti agli occhi di Ornik gli ultimi anni. Giorni, settimane, mesi uno accanto all’altro, di frequenti degenze in sanatorio. D’un tratto Ornik sentì il peso del proprio corpo come se lo tenesse in una mano”. Il male è impalpabile come il respiro, ma l’inguaribile fardello è esserci – la condanna incisa nella propria carne.

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