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Perché i contagi sono ancora così tanti?

Carmelo Caruso

Medici e scienziati provano a fare chiarezza: si tratta di un dato parziale, meglio osservare i numeri della rianimazione e delle terapie intensive (che sono scesi), il tempo, le mutazioni del virus e la sua permanenza 

In breve e senza girarci: è vero che i contagi sono scesi ma è vero anche che i nuovi casi sono circa duemila al giorno. Perché ancora quel numero? Siamo rimasti due mesi in quarantena, abbiamo rispettato (ci abbiamo provato) tutti i divieti. Non abbiamo perso la fiducia e però, perdonateci professori, non capiamo ancora la ragione. “E allora proviamo a fare chiarezza e a dire che quelli che comunemente definiamo nuovi contagi sono in verità le nuove diagnosi di contagio e non fotografano il momento o il giorno, ma segnalano, in molti casi, contagi che sono avvenuti anche molte settimane fa” prova a spiegarci con pazienza il professore Massimo Galli, primario dell’Ospedale Sacco, docente di malattie infettive alla Statale di Milano, uno che da tempo avanza perplessità su quello che chiama “il rito dei numeri” adesso interrotto come cerimonia della sera. Meglio dunque non farsi accecare dai dati? “Dico che il dato dei contagi non è altro che parziale e dipende dalla capacità dei laboratori. Sgomberiamo il campo. La data della diagnosi non corrisponde alla data dell’infezione”. E infatti, per il professore Galli, che in tutti modi tenta di rendere intelligibile qualcosa che malgrado tutto rimane ancora complesso e oscuro, l’esempio è quanto accade con i casi di sieropositività. “Se scopro un contagiato di Hiv questo non significa che il nuovo contagio risale a una settimana o al giorno prima. Potrebbe risalire perfino ad anni. E allora il consiglio è: guardiamo non tanto al numero dei contagi ma al numero di pressione delle terapie intensive. Osserviamo i numeri della rianimazione. Si sono ridotti e questa è una piccola e buona notizia” risponde Galli.

 

Più che contagi dovremmo forse prendere in prestito, per una volta, i termini della giurisprudenza. “Notifiche di contagio” li definisce il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità ed epidemiologo, Giovanni Rezza, che ricorda i tempi lunghi dei tamponi e non per ingaggiare una polemica ma solo per precisare che quando ci avviciniamo ai numeri dei contagiati dobbiamo fare un salto all’indietro. Come si è detto quel numero dipende dalla mole di test effettuati. Non lo usano gli epidemiologi per costruire le loro curve. “È sicuramente più affidabile la curva che segnala la comparsa dei sintomi. Quella è più vicina alla vera data del contagio”.

 

Arriveremo mai al contagio 0? “Non lo avremo mai e questo non significa che dobbiamo smettere di vivere. Sappiamo che con la riapertura correremo dei rischi. Ma la riapertura ci servirà per orientarci, monitorare. Al momento è solo questo che possiamo fare” argomenta Rezza che come Galli, e da scienziato, sa di trovarsi di fronte a qualcosa, un virus, che non basterà sconfiggere ma si dovrà inseguire nelle sue mutazioni.

 

Tornando al numero dei contagi non deve quindi stupire che si aggiri intorno ai duemila al giorno e non deve farci infuriare. Deve tuttavia continuare a farci, e molto, preoccupare. È l’indirizzo di Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di Microbiologia all’università di Padova, protagonista in Veneto della strategia (vincente) dei test a tappeto. “Penso che quel dato sia perfino sottostimato. Dobbiamo purtroppo dire che il numero dei nuovi contagiati rimane alto, troppo alto perché la gente è uscita, ha continuato a trasmettere l’infezione. E non voglio sentire parlare di immunità di gregge. Non è altro che una stupidaggine. Nessuno ha dimostrato che ci proteggerà e che ci voglia il sessanta per cento. Non sarebbe sufficiente”. Crisanti teme per l’Italia l’effetto Germania dove i contagi sono schizzati dopo la riapertura. “Forse la temperatura, l’estate ci aiuteranno” confida il direttore ma “il rischio, credetemi, è alto”.

 

Non è altro che la stessa posizione di Giorgio Palù, professore di virologia a Padova e alla Temple University di Philadelphia. E qui è forse arrivato il momento di sfatare l’idea che tutti questi esperti abbiano preso gusto alle interviste, che li abbia contagiati la vanità. Rispondono per cortesia, ma sempre meno e con il fastidio e il timore che le loro parole possano essere mal interpretate. Per Palù, e lo chiarisce come se lo stesse chiarendo in aula ai suoi studenti, sono tre i fattori che determinano il contagio: “Il numero degli infetti, il tempo in cui il virus alberga nel corpo degli infetti e il numero dei contatti. La discesa è lenta, la gente ha continuato a circolare. Non siamo la Cina ma dobbiamo tenere a mente che le persone che possono infettarsi sono almeno dieci milioni”.

 

Dice quello che pensa pure Galli quando parla di contagi e punta dell’iceberg: “Noi vediamo solo la punta di quell’iceberg”. Ragionando sul numero dei decessi, sulla letalità del virus, Galli è portato a dire che il numero vero degli infetti potrebbe essere di due milioni ma che discettare di numeri non serve poi a molto e che più sensato è spingersi a immaginare gli scenari futuri. Professore, quali sono? “Il virus potrebbe diventare un socio di minoranza dei raffreddori o scomparire come la Sars. Potrebbe essere bonificato in una parte del mondo, ma riapparire in un’altra e continuare purtroppo a circolare”. Tra i motivi che rispondono alla nostra domanda iniziale c’è anche il periodo che chiameremo di residenza del virus nel corpo. Una permanenza lunghissima.

 

Anche Galli si dichiara stupito di questo: “Non sono virus che cronicizzano, ma stiamo assistendo a periodi lunghi di permanenza”. Il tempo, la sua consonante “t”, sta infatti sostituendo nel famigerato R quello che era lo zero. Se con R con zero si indicava e si indica la riproduzione in assenza di interventi, con R con “t” si indica la riproduzione a tempo e dopo gli interventi, dove per interventi sono da intendere il distanziamento sociale e il lockdown. Sempre parlando della variabile tempo, per Rezza, “stiamo registrando questa permanenza lunga ma va tenuto conto che dopo il decorso della malattia ci potrebbe essere una positività bassa. Insomma, si può continuare a risultare positivi ma senza avere carica virale. È l’inizio, i primi giorni, che la carica è alta” conclude Rezza. Sono tutte prove che testimoniano la difficoltà scientifica e la concretizzazione di un incubo annunciato. “Da scienziato – dice Galli – avrei davvero preferito non trovarmi di fronte a questa sfida. Il virus ci ha ricordato che gli uomini per il pianeta non sono altro che un parassita e che basta poco per potersene liberare”.

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