(foto LaPresse)

Parla Franco Locatelli, il prof. che spiega agli italiani la pandemia

Carmelo Caruso

Lombardo, latinista e atalantino. “Il modo peggiore per onorare i medici caduti è chiedere il grande processo civile”

Roma. “Non voglio scotomizzare la domanda”, ma “permettetemi di dire”, ancora grazie per “l’opportunità di sottolineare” e quindi “se non vi dispiace…”. C’è una novità importante in questa Italia reclusa e stordita. Andrebbe infatti studiato dai linguisti questo lessico (coraggio, fatevi avanti!) del presidente del Consiglio superiore di sanità, il professore Franco Locatelli, che da settimane ci racconta la pandemia come uno scandalo di garbo e di infinita dolcezza.

 

Il governo diventa così “il decisore politico”, il rapporto fra medicina e politica non può essere di sottomissione ma “dialogico”, mentre l’attenzione deve essere “suprema”. Oncoematologo di 59 anni, primario ed esperto di terapie cellullari all’ospedale Bambino Gesù di Roma, Locatelli è ormai la spalla stabile di Angelo Borrelli, il capo della Protezione civile, che trova conforto e protezione nelle sue parole alte e sobrie e forse nel suo timbro che è uno speciale pentagramma di note basse, insomma onde corte: “Se siete d’accordo, lascerei la parola al professore…”. Su Facebook, che è il vero il termometro della popolarità, da pochi giorni si è costituito un gruppo che si è dato questo nome: “Quelli che stimano il prof. Franco Locatelli”. Professore, lo sapeva? “No, ma devo dire che non può che farmi piacere”. Locatelli è nato a Bergamo, quella Bassa (“In via Pradello, vicino alla prefettura”), ma ha abitato a Lovere, un altro dei paesi più colpiti dall’epidemia, un altro San Martino del Carso della nostra Lombardia. Nel corso di una delle ormai quotidiane conferenze stampa ha detto: “Sento da vicino questa tragedia”. E le parole, così recitate, anche ai giornalisti hanno fatto tornare in mente i versi del poeta Giuseppe Ungaretti: “Nel cuore nessuna croce manca / è il mio cuore il paese più straziato”. Figlio di medico (“Medico generico, anzi, generale”), il padre si chiamava Santo. La madre, Ersilia, era invece ostetrica. E però, Locatelli è cresciuto con gli zii: “Da bambino soffrivo di laringiti e i miei genitori pensarono di affidarmi a loro. E’ stata una delle mie più grandi fortune. Ho avuto il privilegio di avere quattro genitori”. Per Paolo Conte lo zio è un quasi padre, un quasi fratello, in pratica un quasi complice, “zio, zio / spiega la vita / spiega cos’è”. E il suo, che zio era? “Un maestro e in entrambi le accezioni. Indubitabilmente ha avuto su di me un fascino particolare”, racconta il professore che fa risalire allo zio Giuseppe la passione per la lingua preziosa e l’aggettivo ricercato: “Mi sarebbe piaciuto fare l’insegnante come lui. E’ stato il destino di mia sorella Roberta. Si è pensionata da poco. E’ stata una bravissima professoressa di Lettere”.

 

Alle scuole elementari ha studiato in classe con lo zio, ma che era naturalmente “signor maestro” (“L’ho sempre chiamato così”). Anche le scuole superiori le ha frequentate a Lovere, liceo scientifico. Studente eccellente di matematica, ma sufficiente nelle materie artistiche. A cuore aperto, in un’occasione, Locatelli ha riconosciuto che mai avrebbe potuto fare il chirurgo (“Confesso di avere scarsa manualità”). Con una delle sue formule rivela dunque di avere fatto ricorso al mutuo soccorso dei compagni di banco, allo scambio equo, solidale e intellettuale: “Mi fa poco onore ma devo ammettere che scambiavo i miei compiti di matematica con i capitelli ornati dei miei compagni. Mi piace definirlo mutuo soccorso. E’ una bella parola”. Ha studiato medicina a Pavia perché Milano era troppo città. Ha mai disobbedito da adolescente? “Ero un classico bravo ragazzo”. Le dispiace? “Avrei dovuto trasgredire di più. C’è una sana trasgressione giovanile che può essere indizio di indole, coraggio. Da ragazzo ho anche accarezzato l’idea di fare il fisico ma mi mancò appunto il coraggio e la perseveranza”. E non lo dice da medico pentito (“Ecco, la medicina è stata un’altra delle mie più grandi fortune. Mi riempie la vita. Guardi le mie pareti. Queste sono le foto dei bambini che abbiamo curato. Sono bambini malati di cancro”). Lo dice come chi cerca i piccolissimi difetti del carattere, le invisibili sbavature di colore nella tela. In campo medico, è ritenuto, in questi casi si dice, un luminare (ma quanto è logoro il termine, non crede professore?) della terapia genica. Suoi sono gli ultimi tentativi di intervenire sul Dna dei pazienti affetti da cancro iniettando linfociti che possono combattere il tumore. I suoi maestri sono stati Roberto Burgio, siciliano, padre della pediatria italiana (“Una curiosità mai paga. Con lui c’era un affetto filiale”). E poi Umberto Magrini, anatomopatologo, e il fisiologo Ulderico Ventura: “Si presentava all’università con un’ora di anticipo. Portava gessetti di vario colore. Quel tempo gli serviva per costruire le sue lezioni”. Prima della nomina all’ospedale Bambino Gesù, ha lavorato a Pavia, docente, e ha avuto a Londra quello che definisce un “passaggio”. Nel 2009 ha accettato la proposta di trasferirsi a Roma, “ma ho profonde radici pavesi”. Il film della vita è “C’era una volta in America”. Il suo scrittore preferito è George Orwell che molti in questi giorni citano. Tutti ripetono – altro tic che sarebbe finito in Un paese senza di Alberto Arbasino – “quella che stiamo vivendo è una distopia”. “E lo citano a sproposito. Mi sembra inopportuno” suggerisce Locatelli. Al momento sta leggendo, forse rileggendo, i testi di Ivano Dionigi e in particolar modo Quando la vita ti viene a trovare. Lo ammira: “E’ un grandissimo latinista”. Tra i classici predilige Seneca e Lucrezio che per tutti è semplicemente la filosofia del piacere. Ma quali sono i suoi piaceri? Il vino. “Il Barbaresco. Non me ne vogliano i toscani”. Etichetta? “Treiso, delle cantine Grasso. Quattro varianti. Poi il tennis”. Da ragazzo ha delirato per Adriano Panatta perché era imprevedibile: “Nella giornata giusta era capace di battere chiunque e in quella sbagliata di farsi battere da chiunque”. E’ tifoso dell’Atalanta. E’ arrivato così il momento di fargli la domanda del se, come, e quanto… “Immagino mi chiederete se davvero la partita Atalanta-Valencia sia stata la bomba epidemiologica che tutti ripetono sia stata”. Locatelli risponde che è impossibile rispondere. La sua opinione è che abbia contribuito, ma non si possono dare numeri, così come è difficile capire cosa abbia fatto esplodere l’epidemia del bergamasco: “Non lo sappiamo”. Alla sanità e al governo si rimprovera oggi l’impreparazione, il fallimento di quello che si considerava un modello da esportazione. Locatelli non lo accetta. Se l’Italia era impreparata anche il mondo lo era: “Una pandemia così non si vedeva da un secolo. La nostra sanità ha dato una risposta di sistema. Abbiamo retto una pressione mai vista. Siamo riusciti a contenere i contagi nel sud e questo lo ritengo un successo”. Il professore è sposato. E’ credente: “Sì, lo sono”. E però, è un laico delle mascherine che è ormai la separazione dei mondi fra virologi. Ci sono i liberali della mascherina, di cui Locatelli fa parte, e poi ci sono i progressisti che ne chiedono l’utilizzo perfino in casa, in spiaggia. A Borrelli hanno rimproverato di non indossarla. Per strada chi non la porta, in alcuni casi, ha rischiato, e forse rischierà, l’inseguimento. In Lombardia è ormai indumento di legge. “Ma io non sono un manicheo delle mascherine e non possiamo certo far scoppiare una guerra di religione”. Anche il professore teme il pensiero fondamentalista che si applica a queste protezioni, il conflitto fra guelfi e ghibellini. La corsa ad accaparrarsi la più sofisticata ha impedito ai medici di trovarle. “Le Ffp3 servono agli infermieri, ai medici. Lo abbiamo ripetuto. Riguardo alle mascherine, ho come l’impressione che chi le porta finisca per provare un senso di sicurezza. Un senso illusorio”. Insomma chi le indossa si dimentica di fare le cose semplici che per Locatelli rimangono sempre il distanziamento sociale, l’igiene delle mani. Fa una confidenza: “Non mi piacciono gli scienziati che partecipano a questo conflitto”.

 

Se i virologi fossero parlamentarizzati, Locatelli apparterrebbe, da gran lombardo, al partito dei repubblicani, una specie di Ugo La Malfa: autorevole, tenace ma in minoranza. Non sopporta la retorica banale dell’usciremo migliori. Da direttore del Consiglio superiore di sanità ha sempre ricordato che il suo compito, e della comunità scientifica, è dare indicazioni, ma poi è la politica che deve decidere. “Ne usciremo quindi non migliori, ma solo diversi”. E’ sicuro. “Ciascuno ne uscirà rivalutando la scienza e la competenza”. Il professore spera che nessuno, dopo la pandemia, “possa più mettere in discussione i vaccini. Che nessun incompetente abbia più cattedre di docenza da dove avanzare tesi squilibrate”. Di sicuro, quando si uscirà dall’emergenza, si prepara il grande processo. Ci sono giornali che consigliano di annotare i nomi, di conservarli. Potrebbero chiamarlo ad emettere sentenze. “Mi sono sentito gratificato quando qualcuno mi ha definito un civil servant. Il modo peggiore per onorare i medici caduti è chiedere il grande processo civile. Si dovrà ricostruire un paese e non un edificio accusatorio”. Il modo migliore per dimenticarla sarà raccontarla.

 

E magari i sopravvissuti lo faranno e tutti proveranno a spiegare quello che neppure Albert Camus riuscì mai a comprendere. C’è un momento in cui tutto finisce, ma non è un momento preciso. Locatelli non lo conosce questo momento, non può offrire date. Ha solo un’idea su cosa sia un’epidemia: “Ogni grande epidemia non è altro che una storia. Anche questa sarà una storia edificante”. Un paragrafo avrà il suo nome.