I giovani, i vecchi e questa bruttissima bestia
Il coronavirus è una malattia terribile per la facilità del contagio, l’aggressività, la rapidità, e la lunghezza del decorso. Ma anche perché costringe i medici a scelte estreme, etiche e sanitarie. Dialogo con Paolo Malacarne, rianimatore speciale
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Dall'Inghilterra all'America, l'orrida tentazione di lasciare indietro i più fragili
Paolo Malacarne, 62 anni, dirige dal 2008 una terapia intensiva dell’Ospedale pisano di Cisanello, l’Unità di Anestesia e Rianimazione legata al Pronto Soccorso. Avevo due domande soprattutto. Questa pandemia otterrà di fermare e invertire uno dei più significativi indici del progresso del genere umano, il più significativo forse: la longevità? Se il virus risparmia, fortunatamente, i piccoli e i più giovani, e infierisce sui vecchi e provati – vecchiezza e vulnerabilità sono sorelle – quando sia avanzato bene nel suo lavoro avrà fatto abbassare la durata media della vita, la “speranza di vita”. L’età media di una popolazione può ringiovanire grazie all’avvento di nuovi nati, quello che non succede da noi. Noi abbiamo un’età media di 45 anni e una aspettativa di vita di 82,5 (37 anni l’età media in Cina con una aspettativa di vita di 77; 15 anni la Nigeria, con un’aspettativa di vita di 30 anni inferiore alla nostra!). Oppure l’età media può abbassarsi, ringiovanire per così dire passivamente, regressivamente, non perché cresca il numero assoluto dei giovani, ma perché muoiono di più i vecchi. E’ questa l’insidia principale del coronavirus, la spiegazione dell’apparente sproporzione della sua minaccia? Ricacciare indietro la speranza di vita?
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