Rita Levi-Montalcini con Fernando Aiuti (foto LaPresse)

Aiuti seppe guardare e curare i malati di Hiv quando nessuno lo faceva

Giuseppe De Filippi

E' morto oggi il medico che decise di stare a contatto con chi sta male e con la disperazione di chi, per molti anni, non era curabile

Il suo sorriso era molto raro, e semmai era un sorriso di sfida, fatto per suscitare risposte o per far emergere l’ironia quasi da sé. Fernando Aiuti era nato duro e si era ancora indurito con la vita, con gli ospedali, i malati, il rompicapo della sfida tra sistema immunitario e mondo esterno. Quello scudo meraviglioso, come lo ha chiamato in un suo libro, lo aveva studiato senza smettere mai. E forse ne era stato affascinato cominciando gli studi di medicina. Il sistema che difende, che ci mette al riparo dal male. Forse qualche ricordo d’infanzia lo ha accompagnato in quella ricerca incessante sul funzionamento del meraviglioso meccanismo difensivo del nostro corpo e sui suoi nemici. Da Urbino, dove era la sua famiglia di origine (il cognome però ha radici spagnole), il padre lo portò via per unirsi alla Repubblica di Salò. Poi tutto si rimette al suo posto, ma l’esperienza lascia comunque segni. E forse spinge a studiare, nel paese che era cambiato. E a costruirsi parallelamente alla sua vita professionale una specie di immunità verso il mondo grazie a una famiglia meravigliosa, costruita assieme alla sua bellissima moglie tedesca, di Amburgo. Poi l’incontro al Policlinico di Roma con la malattia che sconvolge il suo campo di studi. E’ tra i primi a vedere davanti a sé pazienti il cui sistema immunitario si spegneva e le cui condizioni non si riuscivano a recuperare. Ne vede molti, moltissimi, morire. Lavora in contatto con la comunità mondiale degli immunologi e segue le fasi in cui il suo amico Robert Gallo, medico e biologo, individua il retrovirus che porta l’Hiv e percorre poi tutti i passi di questa scoperta.

 

Lo fa da studioso e da clinico, quindi a contatto con chi sta male e con la disperazione di chi, per molti anni, non era curabile. E allora ci immaginiamo quest’uomo duro e poco cerimonioso, forte ma esile, a confortare chi, ancora negli anni Ottanta e fino alle prime terapie di una certa efficacia all’inizio dei Novanta, non poteva avere conforto medico. E forse solo con la sua scorza si potevano affrontare quegli occhi, quel dolore, dove la bontà un po’ mielosa non sarebbe servita a niente, dove bisognava avere qualcosa di speciale per trovare le parole e gli sguardi. Con tutta la comunità scientifica mondiale ha contribuito alle ricerche che hanno portato a terapie funzionanti. Sono sue più di 600 pubblicazioni in vari campi dell’immunologia, non solo nel contrasto all’Hiv. Ha guidato, organizzato, contribuito a finanziare, gli hospice dove, quando non c’erano speranze, i malati di Aids venivano accolti per i loro ultimi giorni. E con le prime terapie e poi i successivi sviluppi che hanno trasformato l’infezione da Hiv in una malattia gestibile nella grandissima parte dei casi ha vissuto uno dei più grandi successi della storia della medicina. Ma è servita, negli anni più difficili, tanta informazione e prevenzione per fermare la diffusione, il contagio, dell’HIV e Aiuti se ne fa una missione, anche e soprattutto televisiva. Spiega, informa, cerca di contrastare fissazioni e pregiudizi.

 

In un congresso dell’Anlaids, da lui fondata, smonta pubblicamente la paura del contatto con chi è affetto, prende di petto, mediaticamente, lo stigma sui sieropositivi (parola che allora, nel 1991, sembrava ancora una condanna). E’ il famoso bacio in bocca, mediatico e reale, dato in pubblico alla ventiseienne Rosaria affetta da Hiv. Lei oggi lo piange come chi le ha salvato la vita e come chi la ha restituita al mondo, anche nel senso delle relazioni. Gli elettori di Roma, nelle zone tra la Casilina e la Prenestina hanno perso l’occasione di mandarlo in Parlamento, quando si presentò con il centrodestra in un collegio uninominale. Ma con la politica ha collaborato, consigliando ministri e assessori. E’ morto al policlinico Gemelli, a Roma, porta con sé migliaia di sguardi, quelli di chi non aveva più speranza e quelli di chi scopriva, contro l’opinione corrente, di potercela fare.

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