A ogni zar la sua guerra
La storia ci dice perché Putin aveva bisogno di invadere l'Ucraina
La tentazione di attribuire la responsabilità al fantomatico “spirito russo”, violento e servo per natura. Ma la verità sta nei meccanismi del potere autocratico, da svelare dietro la cortina di fumo della retorica nazionalista
Colpa dell’autocrate o dell’intera nazione? La domanda assillava gli osservatori già nell’Ottocento, con la Guerra di Crimea. Lo stesso interrogativo oggi riguarda la Russia di Putin. La risposta nel saggio di una storica di Princeton
“L’imperatore Nicola era solo nel suo scrittorio abituale, nel Palazzo di Carskoe Selo, quando gli giunse la soluzione. Non prese alcun consiglio. Suonò una campanella. Prontamente un ufficiale del personale gli fu davanti. A lui diede gli ordini per l’occupazione dei Principati [del Danubio]. In seguito disse al Conte Orloff cosa avesse fatto. Il Conte Orloff assunse un’aria grave e disse: ‘Questa è guerra’”.
Alexander William Kinglake, “L’invasione della Crimea”, 1863
Alexander William Kinglake, scrittore di viaggio britannico del Diciannovesimo secolo e storico che pubblicò la storia della Guerra di Crimea in otto volumi, difficilmente avrà saputo come e in quali circostanze Nicola I prese la fatidica decisione che portò alla dichiarazione di guerra degli ottomani. Nell’immaginazione degli storici e scrittori dell’Ottocento, le guerre erano effetti dell’alta politica, e la Guerra di Crimea, una delle più insensate, ridicole e tragiche sconfitte della storia russa, fu comunemente imputata allo zar russo e alla sua terribile vanità, arroganza, fanatismo religioso e nazionalismo. Gli storiografi di corte versarono fiumi di inchiostro tentando di esonerare Nicola I e scaricare la colpa dell’inizio del sanguinoso conflitto sugli alleati traditori della Russia e sui suoi insidiosi rivali.
Il rivoluzionario Chernyshevsky incolpò scrittori e poeti di aver impresso nelle menti dei più semplici cittadini la fantasia di prendere Costantinopoli
È dunque ancora più sorprendente che neanche Nikolai Chernyshevsky – il primo rivoluzionario democratico russo, il quale apparentemente lesse il volume di Kinglake nella sua cella nella Fortezza di Pietro e Paolo nel 1863 – attribuì allo zar la colpa: “Chi ha versato questi fiumi di sangue? Chi? Ah, se solo la coscienza e i fatti ci avessero permesso di pensare ‘lo zar defunto’, come sarebbe stata una buona cosa! Lo zar defunto è morto da lungo tempo, e non dovremmo affannarci sul futuro della Russia… Eppure, mio caro lettore, né lo zar morto né il governo sono colpevoli della guerra di Sevastopol”.
Secondo Chernyshevsky, il sospettato principale era la colta “opinione pubblica” russa, che aveva incolpato lo zar defunto e continuava a vivere senza alcuna punizione o rimorso: “L’opinione pubblica è immortale; non si ferma e non c’è più speranza che questo soggetto che ha causato la guerra di Crimea smetta di rappresentare la Russia e di avere una grande influenza sul suo destino”. Senza il dovuto rispetto per la grandezza dei poeti e degli scrittori russi, incluso Pushkin, Chernyshevsky li incolpò di aver impresso nelle menti dei più semplici cittadini russi le fantasie di prendere il controllo di Costantinopoli e sconfiggere gli ottomani sul loro stesso suolo.
Nessuno, certamente, voleva la guerra, e solo mentre dicevano addio ai loro cari quelle persone che avevano scherzato, con noncuranza, di un “Bosforo russo,” hanno capito per che cosa fosse la guerra. La Russia subì una sconfitta umiliante, sperperando insensatamente migliaia di vite e milioni di rubli. Eppure gli orrori del conflitto in Crimea, anche se soltanto visti attraverso gli occhi dei soldati russi e non delle loro controparti turche (o britanniche e francesi), furono presto dimenticati.
Non molto tempo dopo la vergognosa debacle, il governo approvò l’istituzione di un “comitato slavo” a Mosca che puntava a “prevenire” e anticipare l’influenza russa sugli slavi meridionali dell’Impero ottomano. Vent’anni dopo, Nicola, figlio di Alessandro II, mosse un’altra guerra contro i turchi, affermando di proteggere la popolazione cristiana dell’Impero ottomano. La seconda guerra orientale nel 1877-1878 fu un successo militare, ma cosa ancor più importante, un trionfo propagandistico che scacciò la questione della responsabilità per un’altra avventura imperialista. Chiaramente il governo aveva imparato una lezione dall’umiliazione di Crimea: affrontare i problemi delle vittime e della responsabilità doveva essere parte integrante dello sforzo e della strategia bellica.
Vari autori paragonano la Russia di Putin alla Germania di Hitler, ma le cause della malattia sono probabilmente differenti
La guerra catastrofica contro l’Ucraina, cominciata nel 2014 e che è entrata nella sua fase più sanguinosa nel febbraio del 2022, ha già prodotto accesi dibattiti sulle sue cause. La domanda se questa sia la “guerra di Putin” o la “guerra della Russia” dà nuova voce al dilemma di Chernyshevsky, ma le risposte, solitamente emotive e spontanee, esprimono l’incomprensibilità della violenza piuttosto che un serio tentativo di comprendere le radici del disastro. Vari autori paragonano abitualmente la Russia di Putin alla Germania di Hitler, creando parallelismi tra il carattere letargico dei tedeschi nel riconoscere i crimini nazisti e il supporto del pubblico russo alla guerra in Ucraina. Nonostante questo paragone punti a una diagnosi plausibile – ovvero una peculiare inibizione della crescita intellettuale della società – le cause della malattia nei suoi rispettivi ambienti sono probabilmente differenti. A ogni modo, gli attuali dibattiti su a chi vada data la colpa spesso semplificano il problema, operando con categorie imprecise e ignorando il contesto. Le analisi accademiche dovranno inquadrare il problema in modo quanto più esteso e incisivo, considerando il ruolo e la responsabilità dell’autocrate e della classe dirigente non soltanto nel fare la guerra ma anche nel far diventare gran parte della popolazione un sostenitore e complice.
Mentre un’analisi fredda e distante delle origini dell’attuale guerra potrebbe sembrare improbabile al momento, c’è una cosa che possiamo fare: guardare ai conflitti del passato e analizzare come le guerre russe sono tipicamente cominciate. Questo paragone suggerisce che le formule in discussione – “guerra di un solo uomo” o “guerra di una nazione” – sono esse stesse prodotti di tentativi retorici di celebrare o esonerare i governanti e spostare la responsabilità di aver scatenato i conflitti, vinti o persi, sulla società. Le guerre appartengono a una particolare categoria di eventi che è sempre avvolta nella mitologia: la propaganda di stato moltiplica i suoi sforzi in tempi di conflitti armati. Nella panoplia dei miti, si distingue un tema ricorrente, che descrive lo scenario archetipico del principio della guerra; e le guerre fallite della Russia non erano solo quelle che la Russia perse da un punto di vista militare, ma anche quelle che non seguirono lo scenario prestabilito, quelle che evidenziarono il ruolo personale del sovrano. Per affrontare il problema di causalità e responsabilità, tuttavia, è importante distinguere i rituali con cui si comincia una guerra dagli effettivi meccanismi politici che la mettono in atto.
Mentre va avanti la guerra in Ucraina, è illuminante considerare i precedenti delle guerre imperiali russe del Diciannovesimo e inizio Ventesimo secolo, così da seguire come cominciarono, come vennero descritti i loro inizi e cosa ci potrebbero dire quegli inizi sulla serie di responsabilità della violenza. Nonostante la distanza temporale, il paragone fra le politiche di guerra nella Russia imperiale e nella Russia contemporanea è utile e legittimo: come dimostrano i costanti riferimenti di Putin all’eredità imperiale, egli consapevolmente e inconsapevolmente imita i vecchi meccanismi del governo autocratico. Le guerre, e non le riforme interne, per quanto “grandi” possano essere state, rappresentano il principale meccanismo di legittimazione delle autocrazie. Quasi tutti i sovrani della dinastia Romanov combatterono almeno una guerra durante il loro regno. E’ ragionevole, dunque, suggerire che le autocrazie non condividono una mera generica inclinazione verso la violenza, ma che dimostrano anche simili meccanismi decisionali su scala geopolitica. Al principio della guerra, il momento chiave del regno di ogni monarca, un autocrate reclama una completa autorità che in tempi di pace potrebbe apparire limitata e vincolata.
Quest’autorità totale, il modo in cui la guerra è utilizzata per rinforzare il potere dittatoriale, potrebbe non essere messa completamente in mostra. Per giustificare la guerra, un autocrate potrebbe citare una presunta provocazione dal basso o una richiesta popolare a cui sta rispondendo. Potrebbe spostare la colpa della responsabilità per le perdite umane sui suoi consiglieri, assegnando a se stesso i benefici politici delle vittorie. Per questo motivo, i veri meccanismi delle politiche di guerra dovrebbero essere criticamente esaminate. E rimane la domanda sul ruolo della società. Questa va incolpata delle violenze, come immaginava Chernyshevsky? La società è in grado di agire in uno stato autocratico, e l’autocrate prende in considerazione “l’opinione pubblica”? E oltretutto, la responsabilità collettiva è una categoria utile, o dovrebbero essere imputati nel tribunale della storia soltanto singoli criminali, o gruppi e organizzazioni?
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Cominciamo con il ruolo dell’autocrate. Nelle parole sagge e controintuitive di Timothy Frye, “riconoscere Putin come un autocrate (…) mette a fuoco i limiti impliciti del suo potere, tipici di un governo autocratico”. Storici dell’autocrazia russa concordano con questa osservazione: in nessun momento della storia, dicono, uno zar moscovita, un’imperatrice o un imperatore fu pienamente “autocratico” nel fare le proprie scelte e prendere le proprie decisioni. Clan di boiari, fazioni a corte, gruppi di ministri, favoriti e lobbisti lavoravano tutti quanti nell’influenzare la volontà del sovrano e fargli prendere la decisione giusta al momento giusto.
Gli zar trasferivano spesso le responsabilità morali e politiche di decisioni cruciali sui rappresentanti delle élite. Il rapporto con i consiglieri
Mikhail Dolbilov chiama questo processo “divinazione,” che consisterebbe nel “costruire” la volontà dell’autocrate e tradurla nel linguaggio delle leggi e degli ordini.
Le interazioni fra zar e consiglieri, tuttavia, non furono mai unilaterali: i monarchi manipolavano le persone con maestria, approfittando di contraddizioni e conflitti tra i loro favoriti e cortigiani, inasprendo apposta i litigi, e trasferendo le responsabilità morali e politiche di decisioni cruciali su rappresentanti delle élite. Oltre a queste reti informali di potere, gli autocrati dipendevano anche su una varietà di corpi politici. Sia nella Russia monarchica che nell’autocrazia di Putin, le camere legislative e gli uffici politici sono serviti principalmente a legittimare le scelte del sovrano e unire le élite politiche attraverso responsabilità condivise. Vi è anche una classe di tecnocrati e burocrati che sopportano il fardello del governo ed eseguono gli ordini del monarca. Potremmo dunque concludere che la “volontà autocratica” è una serie di complessi meccanismi basati sulla preponderanza di pratiche informali, tradizioni e rituali rispetto a leggi e regolamenti.
Eppure, quando si arriva alla guerra, i rituali tradizionali e i processi decisionali si dimostrano irrilevanti. Il ruolo del governo passa in secondo piano e l’autocrate si circonda di consiglieri ufficiosi cambiando il passo di marcia, ignorando politici fidati e promuovendo nuove personalità dal suo cerchio ristretto. Famosi riformatori burocratici come Mikhail Speransky e Sergei Witte persero i loro incarichi principali alla vigilia di guerre, rispettivamente nel 1812 e nel 1902. La caduta di Speransky fu inscenata come una tragedia: spedendo il suo segretario di stato in Siberia, Alessandro I pianse e lamentò che stesse sacrificando il suo consigliere per la sicurezza dell’impero in vista dell’invasione immanente di Napoleone. Il rimpiazzo di Speransky con dei politici nazionalisti conservatori rappresentò una parte del dramma pre-guerra, ma in realtà rifletteva gli sforzi dello zar di rafforzare la sua autorità assoluta. (segue nell’inserto VIII)
Muovere guerra era un modo per liberarsi di fastidiosi riformatori, smuovere l’establishment e rinnovare l’assolutezza dell’autorità zarista
Anche la storia di Witte è degna di nota: un potente ministro delle finanze, e de facto prima autorità del governo imperiale, perse la battaglia politica contro un manipolo di consiglieri ufficiosi dello zar, che spinsero l’imperatore verso politiche più aggressive nell’estremo oriente che portarono alla fine alla guerra con il Giappone nel 1904-1905. Descrivendo questo episodio nelle sue memorie, Witte raffigurò il povero ingenuo zar come un bimbo dalla scarsa forza di volontà, facilmente manipolato da un gruppo di politici senza scrupoli. La storia, piuttosto accurata nei dettagli, appare come il tradizionale scenario dell’inizio di una guerra, che include una competizione fra le fazioni di corte, a favore o contrarie, che litigano per l’attenzione dello zar. In queste competizioni, l’unico vincitore era solitamente il monarca: muovere guerra era un modo per liberarsi di fastidiosi riformatori, consolidare il consenso, smuovere l’establishment politico e rinnovare l’assolutezza dell’autorità zarista. Nel caso della guerra russo-giapponese, il trucco fallì, portando a una rivoluzione e alla riforma costituzionale del 1905-1906, che spogliò lo zar di alcune prerogative.
Fino alla fine del regime zarista, la guerra e la politica estera rimanevano nella sfera del governo personale dello zar. I racconti delle origini delle guerre, intraprese senza il lungo preambolo delle negoziazioni diplomatiche, inquadravano il dramma della scelta dello zar fra vari campi, attori e opinioni. Nonostante muovere guerra fosse sempre una decisione personale dello zar, la retorica e i rituali dei drammi bellici richiedevano la presenza di altri – nobili difensori dell’onore dell’impero, burocrati deboli di cuore, o malvagi istigatori di violenza. Gli scenari di guerra venivano studiati così da tenere l’autocrate sempre al centro – seppure mai solo. La tipica trama di una “buona” guerra, così raffigurata nei miti ufficiali, includeva sempre 1) tentativi di riconciliazione e la paziente ricerca del sovrano per la pace; 2) la richiesta del popolo, e i suggerimenti dei consiglieri, ad agire con maggiore decisione; 3) la riluttanza dello zar nel versare il sangue dei suoi soldati; ed infine, 4) la sua determinazione a compiere il sacrificio per l’onore dell’impero e per la pace.
La guerra russo-turca viene raccontata come la liberazione dei popoli slavi, una reazione alle atrocità turche in Bulgaria ed Erzegovina
E’ tuttavia importante tenere a mente che la trama convenzionale del dramma di guerra differiva dalle vere dinamiche decisionali autocratiche. Prendiamo ad esempio la guerra russo-turca del 1877-1878. Nonostante Putin non ne abbia mai fatto riferimento (forse poiché la Turchia rimane uno degli alleati comunque infedeli della Russia), la narrativa ufficiale di quella guerra, nonché il modello delle interazioni fra i suoi attori, ricorda stranamente la situazione alla vigilia dell’invasione russa dell’Ucraina. La guerra russo-turca viene tipicamente inquadrata come una guerra per la liberazione dei popoli slavi dell’Impero ottomano, una reazione alle atrocità turche in Bulgaria ed Erzegovina. Secondo il racconto tradizionale, Alessandro II accettò con riluttanza di intervenire dopo che gli sforzi diplomatici russi di risolvere la crisi non avevano funzionato, mentre una “Europa” collettiva dimostrava fredda indifferenza per il destino dei cristiani nell’Impero ottomano. La nobile retorica della liberazione veniva usata per nascondere il fatto che fosse la Russia, alla fine, l’aggressore; e nonostante non pianificasse di annettere i territori salici nel suo dominio – voleva “soltanto” creare stati satelliti dipendenti nei Balcani – la Russia finì per conquistare una porzione del territorio ottomano nell’Anatolia dell’est.
La narrativa ufficiale allo scoppio della guerra russo-turca assomiglia al libretto di un’opera del Diciannovesimo secolo con una trama sviluppata su due livelli – le scene della folla (il pubblico russo che fa il tifo per gli slavi) e il dramma principale alla corte dello zar e nella famiglia imperiale. La folla è toccata dalle notizie delle atrocità turche e reclama giustizia; sono prontamente prodotti dipinti di donne slave bianche come la neve torturate da turchi scuri barbarici, la scena perfetta. Truppe di volontari marciano verso i Balcani, mentre poveri e contadini inviano le loro modeste donazioni per soccorrere i loro fratelli slavi. Nel frattempo, nel palazzo imperiale, lo zar è tragicamente combattuto tra la compassione umana e il dovere come monarca russo di anteporre gli interessi del suo popolo a ogni cosa. A corte, vi sono due forze che spingono in direzioni diverse: una, esemplificata dai burocrati, predicano prudenza e moderazione; un’altra, rappresentata dall’imperatrice Maria Aleksandrovna e l’erede al trono, il futuro Alessandro III, è pienamente dalla parte del pubblico bellicoso e dei paladini degli slavi. Il ministro della difesa Dmitry Miliutin ascolta gli “sfoghi” del cuore del sovrano e li documenta nel suo diario. Lo zar è triste e solo. Le sue “guance depresse” e i suoi occhi gonfi di lacrime rivelano le sue sofferenze; la sua salute sta peggiorando. Sopporta critiche ingiuste di indecisione e passività con stoicismo. Tuttavia è tormentato dai dubbi. Ha compassione dei poveri slavi, ma sa che tutta la colpa per le perdite e le vittime delle guerre “cadono sempre su coloro che fanno il primo passo.” E l’intensità del dilemma viene contrastato dalla freddezza delle controparti europee della Russia, in particolare l’Austria-Ungheria e la Gran Bretagna, che perseguono cinicamente i propri interessi politici, solo fingendo supporto agli slavi dei Balcani. E dopo qualche mese di onesti tentativi di far cambiare ai turchi la propria politica, Alessandro II conclude che la Russia non può evitare la guerra e si risolve ad agire.
La guerra russo-turca divenne un punto di svolta nella politica russa, marcando la fine dell’èra delle Grandi Riforme e provocando il riorientamento estero e interno dello stato. Anche se le trepidazioni di Alessandro erano sincere e credette nella missione russa di liberazione degli slavi, non c’è dubbio che usò le divisioni delle élite a suo vantaggio politico e manipolò i gruppi a corte, nonché la sua famiglia. Le guerre non sono quasi mai il risultato di soli fattori esterni: per comprendere le loro origini, si deve anche guardare all’interno e analizzare le tensioni interne fra le élite, il sovrano e i gruppi interessati.
Analisti politici e rapporti di intelligence suggeriscono che Putin, proprio come Nicola I, ha preso questa decisione in solitudine
A riguardo dell’attuale guerra in Ucraina, non abbiamo ancora il lusso di testimonianze in prima persona, ma analisti politici e rapporti di intelligence suggeriscono che Putin, proprio come Nicola I, ha preso questa decisione in solitudine. Putin ha trasformato la sua ossessione per la resistenza ucraina alle pressioni russe in un affare di stato, un’impresa che tiene i suoi amici stretti e i suoi alleati insieme. Si sa ben poco del cerchio ristretto di Putin; ma le apparizioni pubbliche – nonché le sparizioni – di determinati statisti e politici ci permettono di dedurre che dall’inizio dell’invasione a febbraio la cerchia di amici fidati e consiglieri si sia fatta più stretta, mentre il ruolo dei tecnocrati è diventato completamente secondario. L’influenza del governo è stata significativamente ridotta, e il ruolo del Consiglio di sicurezza, presidiato dal presidente ma ufficiosamente guidato da Nikolai Patrushev, vecchio amico di Putin e ex capo dei servizi segreti russi, è cresciuto. Tutti coloro che sono rimasti al potere vengono costretti a dichiarare pubblicamente il loro supporto alla “operazione speciale in Ucraina”.
In questo caso, come in molti episodi della storia bellica dell’Impero russo, la decisione viene da un autocrate il quale, come prescrive il rituale, ha sollecitato il consiglio del popolo e delle élite. L’incontro del Consiglio di sicurezza, trasmesso dalla televisione di stato russa, mostrava un manipolo di alti funzionari, i quali, con voce tremante, hanno dato il loro consenso all’invasione. Tuttavia, se guardiamo oltre al rituale, le guerre nelle autocrazie sono sempre guerre del sovrano. Quando si arriva alla decisione di combattere, il potere “implicitamente limitato” dell’autocrate diviene, nei fatti, illimitato. Le guerre rappresentano un modo di costruire e mantenere le autocrazie, nonostante possano anche portare alla loro caduta.
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Torniamo ora alla domanda di Chernyshevsky: può un popolo, o per lo meno la sua parte istruita, conosciuta come “il pubblico”, assumersi la responsabilità per aver scatenato una guerra? All’indomani della guerra di Crimea, il popolo si considerò vittima del regime di Nicola I. Tuttavia nel 1877 la situazione sembrava diversa. La seconda guerra orientale era raffigurata come una guerra della volontà popolare che era stata quasi imposta forzatamente allo zar. Vero, gli ideali di patronato politico e culturale sugli slavi dei Balcani nel 1870 erano diffusi nella società russa. I cosiddetti Comitati slavi a Mosca, San Pietroburgo e città provinciali si concentrarono in un primo momento sul rafforzamento dell’unità culturale e su aiuti umanitari, ma in seguito alla repressione della ribellione in Erzegovina nel 1875 passarono a un supporto più attivo degli “insorti”, inviando rifornimenti e reclutando volontari a combattere per la libertà dei “fratelli” slavi. L’effetto di tale attività fu un aumento di sentimenti anti-turchi. Il governo dimostrava pubblicamente la propria neutralità e il proprio non-coinvolgimento; tentò anche di appoggiarsi silenziosamente sui Comitati slavi e guidare l’effusione di sentimenti pro-slavi nella giusta direzione.
Ma queste cerchie pan-slaviche – apparentemente sostenute e finanziate dalla classe dirigente – rappresentavano la “società”? Un’occhiata più da vicino al panorama politico russo degli anni 70 dell’Ottocento mostra che è quasi impossibile separare lo “statale” dal “pubblico”. La Russia non ebbe partiti politici legittimi fino al 1905, e la sfera pubblica veniva attentamente sorvegliata dal governo. Come conseguenza, una manciata di giornalisti e scrittori conservatori – Mikhail Katkov, Vladimir Meshcherskij, Ivan Aksakov – dominavano l’opinione pubblica, controllavano i flussi di informazioni e formavano il linguaggio dei dibattiti pubblici. La loro influenza, tuttavia, non era limitata al popolo. Katkov e Meshcherskij avevano accesso alle cerchie dei governanti: assieme allo zar e ad altri membri dell’élite, erano le principali parti interessate nella guerra contro gli ottomani. Al contrario, i sostenitori liberali e democratici della causa slava venivano repressi, silenziati ed esiliati. La triste ironia della campagna pro-slavi del 1876 sta nel fatto che in quello stesso anno in cui lo zar si decise a supportare la loro autonomia nell’Impero ottomano, firmò anche il famigerato Dispaccio di Ems, proibendo sia la pubblicazione di libri che produzioni teatrali in lingua ucraina, sprezzantemente definita un “dialetto”. Come evidenziò tempo fa lo storico e politico ucraino Mykhailo Drahomanov, la “liberazione” degli slavi ottomani dall’anti-liberale Impero russo, dove i popoli slavi, inclusi ucraini e polacchi, erano privati di qualsiasi autonomia, era un termine improprio. Come osservò Drahomanov, tutte le iniziative pubbliche in supporto degli slavi non avevano senso: la Russia “ufficiosa” che promosse la campagna era indistinguibile da quella “ufficiale”.
Le parole di Drahomanov potrebbero essere facilmente usate per descrivere la situazione nella Russia contemporanea. Coloro che oggi possono parlare per conto della società sono strettamente legati allo stato; coloro che dissentono con la politica statale sono silenziati o incarcerati, oppure hanno dovuto emigrare o nascondersi. La maggior parte dei milioni di sostenitori di Putin e i suoi piani di rinascita imperiale conoscono ben poco del mondo al di fuori della Russia, o anche solo al di fuori della loro cittadina; sono stati cresciuti dalla propaganda di stato e non sono disposti a discutere della veridicità dei miti che genera. Sono entusiasti delle vittorie militari perché non gli sono mai state inculcate idee diverse, né dalla scuola né dalla Chiesa ortodossa. Molti di loro vivono in miseria e abbandono, e cercano conforto emotivo non nella gentilezza e compassione ma nella vittoria illusoria di un’“operazione speciale”.
Il consenso alla guerra trascende la barriera burocratica che, in tempo di pace, divide il sovrano e i suoi sudditi, un’epifania nazionale condivisa
Le guerre sono sempre state raffigurate come momenti di unificazione fra l’autocrate e le masse – una sorta di comunione politica, un’epifania nazionale condivisa. Il consenso alla guerra trascende la barriera burocratica che, in tempo di pace, divide il sovrano e i suoi sudditi. Quando, nel decennio del 1870, i nazionalisti celebravano questa unità, altri vedevano il tentativo di trascinare semplici cittadini nelle politiche belliche come cinico e pericoloso. Come disse il principe Pert Viazemskij, “il popolo non può volere la guerra ma inavvertitamente spinge verso questa (…) Il governo silenziosamente guida il popolo verso questo caos politico, e potrebbe pagarla cara”. Putin ha giustificato l’invasione con le sofferenze dei russofoni in Ucraina orientale, che stavano presuntivamente spingendo per l’autonomia e aspiravano a rafforzare i legami con Mosca. Le dimostrazioni e le marce pro-Russia a Donetsk e Luhansk replicavano quasi testualmente il processo di consolidamento dei sentimenti pro-slavi, pro-guerra e anti-turchi nel 1870, come anche la pubblica euforia russa in risposta all’annessione della Crimea nel 2014. Invece dei turchi “barbarici” ci sono gli ucraini “nazisti,” i quali, secondo Putin, tormentavano la popolazione in Ucraina orientale. Il popolo – ingannato dalla propagando di stato – può esprimere sentimenti nazionalisti, ma l’autocrate non li prende mai veramente in considerazione quando dà l’ordine di attaccare.
È dunque importante distinguere fra i riferimenti retorici al sostegno pubblico e la realtà del processo decisionale. Lo storico David McDonald, commentando certe supposizioni sulla sensibilità dello stato per i sentimenti nazionalisti nella Russia pre-rivoluzionaria, ha giustamente osservato che tali supposizioni “non prendono in considerazione i più sottili meccanismi di causalità e ignorano il fatto che gli statisti imperiali erano molto riluttanti a cedere qualunque voce in capitolo alla società su affari di politica estera. Come affare di stato, tali temi potevano essere considerati soltanto da funzionari professionisti, responsabili per Sua Maestà Imperiale”. In regime autocratico, la nozione di guerra per domanda popolare è un’assurdità.
Nonostante una parte significativa dei russi oggi sostenga la guerra, la maggioranza si opponeva a un conflitto armato prima dell’invasione
Al sovrano, in altre parole, non importa cosa ne pensa il russo medio, o l’intera società russa, dell’Ucraina o dell’Impero ottomano. Nonostante una parte significativa della popolazione russa oggi sostenga la guerra, non l’ha causata, e la maggioranza si opponeva a un conflitto armato prima dell’invasione. Certamente, vi sono stati scrittori russi, il più famoso è Dostoevskij, che furono autori di articoli pan-slavisti, e giornalisti che crearono immagini razziste dei turchi, e vi sono stati politici e intellettuali russi che hanno rifiutato altezzosamente di riconoscere la sovranità culturale e politica dell’Ucraina; e sono tutti responsabili di aver appoggiato la violenza. Ogni soldato che ha premuto un grilletto, lanciato un missile o una granata è complice; ogni governatore o direttore teatrale che ha dato voce al suo sostegno per l’“operazione speciale” si porta la colpa delle vite perse di ucraini innocenti. Ma tutte le responsabilità individuali non si sommano nella responsabilità collettiva de “i Russi”. La nozione di responsabilità collettiva permette a criminali di guerra e ai sostenitori dichiarati della violenza di sottrarsi al giudizio. La “responsabilità delle nazione” spesso equivale alla colpa di nessuno.
Ciò significa che Chernyshevsky aveva torto nell’incolpare “il pubblico” e non lo zar per gli orrori della guerra di Crimea? Non esattamente. Aveva ragione nel pronosticare che la società colta russa non riusciva a capire il semplice pensiero che ogni guerra, vittoriosa o meno, è terribile, che la guerra non è fonte di gloria e dignità, né per un uomo né per un impero. Un tale pensiero rimase estraneo alla nobiltà russa, che continuò a ricercare l’onore sul campo di battaglia, e, con l’eccezione di Tolstoj, il “santo pazzo” della letteratura russa, questo pensiero non trovò espressione nelle opere letterarie. E’ dunque molto importante capire come e perché l’ostilità alla guerra fallì a svilupparsi in un paese dove ogni singola famiglia ha perso almeno un membro in uno dei molteplici conflitti combattuti negli ultimi cent’anni. Chernyshevsky aveva ragione anche nell’evidenziare la presunzione culturale della letteratura russa che ha inculcato nel “pubblico” un sentimento di superiorità imperiale – sui turchi, gli europei, gli ucraini ed altri. Questo sentimento ora alimenta il sostegno alla guerra in Ucraina fra i russi contemporanei. Come hanno già sottolineato molti commentatori, la Russia ha per ora fallito nell’attraversare un processo di de-imperializzazione e una resa dei conti con il proprio passato (pre-rivoluzionario e sovietico).
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Un altro topos che emerge insistentemente nei dibattiti su “di chi è la colpa?” riguarda la responsabilità dell’occidente per aver “provocato” Putin. L’occidente non deve pentirsi di aver offeso Putin e aver ferito il suo orgoglio, poiché farebbe il gioco dell’autocrate. La propaganda di Putin giustifica apertamente l’aggressione riferendosi all’ostilità dei poteri occidentali, i quali avrebbero trasformato l’Ucraina in un parco giochi per le loro operazioni militari contro la Russia. La ragione di questa presunta minaccia occidentale è un altro cliché, copiato dal tipico scenario di guerra della Russia imperiale, in cui qualunque conflitto, ovunque prendesse luogo, veniva visto come contro un “occidente” collettivo. Le dichiarazioni di Putin di giugno scorso sull’ordine mondiale come diviso in due campi, ovvero gli stati sovrani e le loro colonie, e i suoi tentativi di presentare questa guerra come difesa della sovranità di Mosca contro l’occidente, ripete in maniera quasi identica le idee dei nazionalisti russi del Diciannovesimo secolo.
Il regno reazionario di Alessandro III, campione anti occidentale. La de-occidentalizzazione del 2022 verrà ricordata per la chiusura dei McDonald's
Mikhail Katkov, uno dei principali sostenitori della guerra contro gli ottomani, pensava che solo isolandosi dall’occidente la Russia potesse evitare il triste fato di diventare economicamente e politicamente dipendente dall’Europa. L’isolazionismo – il rifiuto di standard e valori culturali, legali, finanziari e politici condivisi – appariva essere un modo di riprendere e rafforzare l’indipendenza della Russia. Così, la guerra con la Turchia del 1877-1878 divenne uno scontro di civiltà con l’Europa e chiuse due decenni di tentativi russi di occidentalizzarsi e riformarsi. La più visibile manifestazione dell’anti-occidentalismo russo fu il regno reazionario di Alessandro III, la sua slavofilia e le sue politiche imperialiste. Da parte sua, la de-occidentalizzazione della Russia nel 2022 verrà ricordata dalla scomparsa dei McDonald’s, centri commerciali vuoti e il deficit di buoni da consumo importati – ma ci sono stati cambiamenti meno visibili e più profondi nel sistema scolastico, industriale e finanziario. Le università e le istituzioni accademiche russe sono state tagliate fuori dai network di cooperazione internazionale, gli investitori hanno abbandonato l’economia del paese e i produttori russi devono imparare da zero come rimpiazzare componenti e macchinari importati.
Il paragone fra le politiche nella Russia imperiale e in quella contemporanea è legittimo: Putin si riferisce costantemente a quell’eredità
L’invasione dell’Ucraina sembrava improbabile fino all’ultimo momento, poiché sfidava ogni criterio di razionalità e minacciava di rovinare l’economia russa e infliggere perdite impensabili alla popolazione. Tuttavia la sua irrazionalità sul piano economico è stata usata dall’autocrate per dimostrare che gli obbiettivi della guerra erano disinteressati, e per mostrare la differenza russa rispetto agli occidentali, odiosamente pragmatici e materialisti. Il principe Dmitrii Obolenskii espresse il suo stato d’animo alla vigilia della guerra russo-turca: “So che non abbiamo soldi. So che i generali sono pessimi… Ma ciò non importa, poiché la domanda principale è, cosa siamo noi?”. Come nel 1877, le autorità russe nel 2022 si vantano altezzosamente del loro altruismo, nonostante il principale onere della guerra, come sempre, cada sulle spalle dei poveri. Nessuno può prevedere i costi umani e materiali – per la Russia, per l’Ucraina, e per il mondo intero – di questa guerra, ma dobbiamo far sì che questo conto venga fatto e che tutte le perdite vengano contate, e che coloro che hanno inflitto tali perdite se ne assurgono le responsabilità.
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L’invasione dell’Ucraina ha avuto effetti profondi non soltanto sulla dimensione fisica dell’esistenza delle persone, ma sul modo in cui percepiscono tempo, spazio e la storia. I piani storici si sono mossi abbandonando la Russia in un buco temporale senza futuro e con un passato discutibile. Putin, che dirige questa tragedia sanguinosa, sospende la specificità storica di questi eventi riferendosi costantemente ai suoi predecessori coronati e seguendo gli scenari imperiali di guerra, come se uno schema senza tempo, un “destino” russo, stia semplicemente venendo rimesso in scena. Questa sospensione del tempo non è accidentale – per il regime di Putin, la guerra è diventata una modalità di esistenza, un presente senza fine, una battaglia escatologica senza una strategia e una cronologia. Alcuni dei critici di Putin sono inavvertitamente caduti nella sua trappola, scambiando la sua retorica per realtà. Invece di studiare il passato imperiale della Russia per capire i precisi meccanismi del potere autocratico e così sbrogliare il coacervo delle idee di Putin, guardano al passato per riprendere stereotipi e cliché meta-storici per giudicare e accusare. Il discorso della “guerra dei russi” è spesso basato su paralleli storici mal compresi e supposizione riguardanti la tendenza genetica dei russi alla violenza e la loro incapacità a sviluppare un senso interiore di libertà. Questa spiacevole essenzializzazione è l’immagine riflessa delle assurdità slaviste sull’unità mistica della Sacra Russia.
La sospensione del tempo: per il regime di Putin, la guerra è diventata una modalità di esistenza, una battaglia escatologica senza strategia
L’analisi delle cause di questa terribile guerra dovrebbe guardare oltre la nebbia retorica della propaganda di Putin e includere il serio trattamento delle politiche di guerra e la struttura – e la logica – del potere autocratico. A che punto, e perché, un autocrate si decide a muovere una guerra? Quali elementi e fattori nelle dinamiche interne di un sistema autocratico provocano un’aggressione? Perché i meccanismi di moderazione non funzionano? Dobbiamo anche incominciare un’attenta ricerca storica su come (e se) la società russa ha affrontato i problemi della violenza e della responsabilità. Le penitenze rituali sulle pagine Facebook da parte della nazione russa rimarranno inutili finché non avremo capito le vere cause della guerra. E quando quel giorno arriverà, le persone responsabili per gli orrori (mi auguro) affronteranno il giudizio, e le corti stabiliranno la colpa degli individui complici di incoraggiare, sostenere, finanziare o giustificare la guerra. Vi è un nesso significativo, analitico e morale, fra causalità e colpevolezza.
Ekaterina Pravilova insegna Storia contemporanea all’Università di Princeton. Questo articolo è stato pubblicato in inglese sulla rivista Liberties con il titolo “The Autocrat’s War”.
Dal consiglio di sicurezza Onu