Foto di Alfredo Bosco 

Cronache da Stepnog'irsk

Ritorno alla Kommunalka. Viaggio in una comunità agricola nell'est dell'Ucraina

Pietro Guastamacchia

La vita di 24 persone che pregano in russo affinché i russi se ne vadano, tirano a lucido un trattore mai usato e attendono: “Se un giorno la guerra finirà i bambini torneranno qui a giocare e ridere”

Stepnog’irsk, oblast di Zaporizhzhia. Doveva essere un affare senza rischi quello per cui Svetlana Lissak e Evgeny Gamyi hanno investito i risparmi di una vita e quelli di altre 22 persone della piccola comunità di Stepnog’irsk per un trattore in leasing a 800.000 grivnie (circa 21.000 euro). Un trattore nuovo per lavorare sui campi limitrofi al villaggio che avrebbero dovuto garantire oltre 300 tonnellate di grano all’anno per un controvalore di un milione di grivnie.

 

Se non ci si fossero messi di mezzo i mortai russi in un anno avrebbero saldato tutte le rate della banca e il trattore sarebbe diventato loro per altri chissà quanti anni e chissà quanti raccolti, ma il grano di Stepnog’irsk, a 4 chilometri  dalla linea del fronte a sud di Zaporizhzhia a metà luglio se lo sono portato via le fiamme delle munizioni incendiarie russe e su quei campi ancora esposti al tiro dell’artiglieria non ci si può più andare da allora.

 

Dei 4.000 inquilini circa che abitavano il quadrato di enormi prefabbricati sovietici prima dell’inizio della guerra ne sono rimasti oggi circa 200, si sono sistemati negli appartamenti lasciati sfitti al piano terra, per essere più vicini alle cantine dove hanno arredato un rete di rifugi in cui nascondersi quando il fuoco dell’artiglieria incrociata gli piove sopra le teste. Da fine aprile a Stepnog’irsk non c’è acqua potabile e l’energia corrente funziona a sbalzi, e per far fronte alle difficoltà chi è rimasto ha deciso di condividere spazi e risorse “non che sia stato difficile per noi, qui sono rimasti solo anziani che ricordano bene come si viveva in kommunalka ai tempi dell’Urss, anzi ci fa sentire giovani”, scherza Natalya mentre assieme ad altre sei donne frigge piroshki per l’intera comunità in una pentola stracolma di olio di girasole.

 

Evgeny fuma seduto davanti al suo trattore, parcheggiato al centro dell’ampio cortile all’ombra d’una quercia e protetto da un prefabbricato disabitato esposto verso la linea del fronte: “Doveva esserci anche il mio grano su quelle navi partite da Odessa, mi bastava un raccolto solo e avrei ripagato tutto” si lamenta, “ora mi hanno sospeso le rate per ancora tre mesi, ma poi bisogna pagare e se non paghiamo io e Svetlana andiamo in bancarotta. Chissà, se la guerra finisse domani, magari cambiando coltura potremmo ancora tirar su qualcosa”, continua l’uomo mentre spegne il mozzicone sulla ruota semi intonsa dei macchinario. La sua compagna è più pessimista: “Tutto ciò che ci rimane è proteggere questo mezzo e cercare di rivenderlo bene nella speranza di saldare i debiti”, taglia secco, “Evgeny ha il cuore d’oro dei contadini ma non vede i problemi, i campi ora sono pieni di munizioni inesplose, anche se la guerra finisse domani mica si può tornare a seminare subito”, insiste la donna mentre il compagno con le mani fa cenni che sembrano dire “sono solo dettagli...”. 

 

Nelle stanze ricavate nelle cantine ora dormono 20 persone circa. Ognuna si è creata un po’ di intimità tirando una coperta tra un mobile e un tubo, “ma le prime settimane di marzo qui sotto eravamo più di 200”, racconta una della donne accampate. “Siamo scesi  tutti qui, uomini, donne e bambini, sentivamo le esplosioni sopra la nostra testa e dai telefoni sentivamo notizie dei russi che avanzavano, quando abbiamo saputo che erano arrivati a Kamianske, a 4 chilometri  da qui ci siamo rassegnati che i prossimi saremmo stati noi, e invece l’avanzata si è fermata”, spiega la donna.

Foto di Alfredo Bosco 

Dal 15 marzo infatti, la linea del fronte del lato nord del cosiddetto “corridoio di terra” ottenuto dai russi per collegare la Crimea al Donbas non è cambiata, e nel mezzo del distretto di Zaporizhzhia si è alzata una cortina di ferro che separa da mesi comunità un tempo raggiungibili in pochi minuti. “Di quello che accade di là non sappiamo nulla” racconta Natalya, “solo ogni tanto vediamo le lunghe file di gente che scappa dal checkpoint di Vasylivka”, racconta la donna indicando la direzione dell’unico posto di blocco aperto per lasciare i territori occupati, che si trova non distante dal villaggio.

 

Ogni mattina dal checkpoint passano colonne da 40 macchine circa, dentro i volti sfiniti di famiglie intere che hanno dormito quattro notti chiuse dentro la loro Lada aspettando che i russi le facciano passare. “Da quando è iniziato l’allarme alla centrale nucleare di Zaporizhzhia i numeri di chi scappa sono di nuovo aumentati, sono tornati quasi ai livelli di inizio conflitto”, spiega il capo dell’amministrazione comunale, Irina Kondratiuk. Qualcuno la mattina va a portare tè e caffè e qualche biscotto sulla provinciale per le macchine di chi è appena passato “per fargli sentire il calore di chi torna a casa”, sottolinea orgogliosa Kondratiuk.

 

Davanti al portone di uno dei caseggiati ancora abitati una quarantina di persone si raduna per il pranzo, ciò che rimane della comunità di Stepnog’irsk è quasi tutto qui, raccolto attorno a un tavolaccio a mangiare i piroshki di Natalya mentre lei con le mani unite e gli occhi puntati verso il cielo prega, in russo, che i russi se ne vadano via dalla sua terra. Al pranzo si è unito anche Vitaly, il bidello dell’asilo del villaggio, ormai deserto da mesi. Un missile l’ha centrato a metà luglio lasciando un buco circolare nella parete che separa le aule ancora tappezzate di disegni bruciacchiati. 

 

Vitaly ogni mattina alle 8 si presenta sul posto di lavoro, tiene puliti i corridoi e spazza via i detriti. “Ha dato di matto, non ha un posto dove andare e passa le giornate da solo a sistemare il suo asilo”, racconta uno dei pensionati seduti a tavola. “Ha sistemato le scaglie dei vetri esplosi in scatole diverse a seconda della dimensione, e spazzato tutti i detriti come se quella scuola potesse riaprire domani”, ridacchiano due uomini. “Io al mio lavoro ci tengo”, si difende il bidello, “se un giorno la guerra finirà i bambini torneranno qui a giocare e ridere, e avranno bisogno di una scuola pulita per farlo”. Il preside invece, stando ai racconti del bidello, “è scappato correndo con un materasso in testa” mentre volavano le schegge dei bombardamenti e poi quando è salito su una macchina ha abbandonato il materasso nel cortile: Vitaly non l’ha mai spostato.

 

Per l’acqua potabile, da quando hanno colpito l’acquedotto, la comunità usa un pozzo artesiano piantato davanti alla vecchia fermata del bus, ogni mattina gli abitanti fanno la coda per riempire piccole cisterne che poi sistemano fuori dalle finestre, 4 taniche da 50 litri invece sono sempre pronte in cantina “dovesse capitare ancora che si rimanga chiusi lì sotto per giorni”, spiega una della donne mentre sistema la cucina sotterranea. Una cisterna agricola invece raccoglie l’acqua piovana e rifornisce una doccia all’aria aperta protetta da teli di plastica.

 

“Noi abbiamo scelto di restare non tanto per eroismo ma perché casa nostra è qui e la paura di non vederla mai più è troppo forte”, racconta Natalya conclusa la preghiera. “La questione della casa è importante, ma io ho 800.000 altri motivi per non scappare”, scherza Evgeny. “Devo stare di guardia al trattore, a guerra finita torneremo a lavorare la terra. La guerra è come un’alluvione, ti porta via tutto ma se sei paziente poi passa”.

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