Roma capoccia

Tra Hirst e Cragg, una mostra London calling a Palazzo Cipolla

Andrea Venanzoni

Nello storico edificio di Roma, in Via del Corso, fino al diciassette Luglio, in mostra gli artisti inglesi per cui Londra è stata matrigna e ventre oscuro di coltura e di cultura

Il fumo elevato in volute sinuose lungo il profilo di una Londra in tumulto. Anni sessanta e poi settanta, gli squassanti ritmi del punk e poi del dark e della elettronica, i fermenti sociali, e l’arte. Arte contemporanea, radicale e incisiva che si sarebbe incuneata come una metastasi nel tessuto urbano e culturale della City.

 
A Palazzo Cipolla, in Via del Corso, fino al diciassette Luglio, in mostra gli artisti inglesi per cui Londra è stata matrigna e ventre oscuro di coltura e di cultura. 


Oscuro già, perché al di là del ribellismo nichilista e dell’approccio di scontro frontale che il richiamo alla canzone dei Clash sembra esibire, gran parte degli artisti in mostra si producono in una riflessione, ora liturgica, ora pop ora infine disperata, sulla morte, sulla consunzione, sulla decomposizione del sociale, del relazionale e dell’istituzionale.
Damien Hirst, che non ha bisogno di particolari presentazioni, è ancora oggi l’autore di intersezioni macabre in cui la sperimentazione si fonde e collude con la disintegrazione di senso.
La sua opera attira e avvince in maniera serpentina, psichedelica, medicale, come un gorgo vuoto che spezza il senso e la visuale. Una tellurica rappresentazione di un orizzonte policromo e accelerato, del tutto fuori da questo mondo, come lascia intendere il titolo.


Per non parlare di Tony Cragg che si produce in una danza macabra postmoderna in cui l’evocazione dello spettro della morte, sotto forma di teschio iper-stilizzato, ascende a vette abissali di forma mutante e di iconografia da videogioco allucinato.
Potrebbe dirsi che un tema così agghiacciante, non voluto in maniera esplicita ma suggerito dalla comune radice di fumo e strascichi cockney degli artisti, mal si attagli ai lucori e alle esplosioni di colore e alla sgargiante consistenza di manufatti, come la borsetta modellata da Grayson Perry nel suo rosa fumettistico e con quell’orsetto dal pene eretto in oro e serratura: eppure, la Londra da cui sono germinati e che li ha ispirati era la città dei rave e dei suburbi orbitali dipinti in droghe sintetiche e rivolta sociale, ed allora la morte ne è presenza, essenza, dato immanente, per quanto trasfigurata e de-medievalizzata.
Menzione al merito, per i fratelli Jack e Dinos Chapman, terribili da sempre nella scultorica e feroce rappresentazione di un mondo che volge al crepuscolo. 


I loro diorami di nichilismo sulfureo, tra icone pop come la M di McDonald’s e la liturgia del supermercato eretto a significante della società e il frullatore di zombie crocifissi e partouze naziste, non sono mai stati un pasto leggero e le accuse, morali ed estetiche, loro rivolte, da sempre svettano feroci.
Sean Scully, davanti a cotanta ferocia, con il suo blu pastoso e le connessioni grigine e quel quadrato nerissimo al centro, sembra riportarci a una dinamica di arte contemporanea più accettabile e forse meno cinicamente londinese, con una riflessione sulla istituzionalizzazione in tempo di pandemia.


Ma poi si torna subito in quel magma vittoriano e lovecraftiano rappresentato dalle opere di Idris Khan, le cui foto sovrapposte, nel loro fumo insondabile ed esoterico rappresentano un sottomondo devastato e spettrale, dentro cui si agitano spiriti inquieti.
Ogni forma è in movimento, nel suo grigio e nero e bianco algido, in una decomposizione dell’esistenza che sembra consistere nella percezione di mille e più mondi frullati l’uno dentro l’altro.
Questo è quel che succede quando si fotografa con la tavola Ouija, evocando le voci elettroniche e sgranate di infinite presenze.
E tutto quindi torna, riavvolgendosi, a significare la presenza di una dinamica poco pacifica di influenza esercitata dalla capitale inglese su questi artisti che sono stati definiti arrabbiati, cattivi, marginali, radicali, ma che in fondo tradiscono solo la spossata inquietudine di chi è condannato a non trovare mai pace.

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