(foto LaPresse)

Case per anziani, nessun caso Trivulzio nel Lazio

Alessandro Luna

Le procedure di distanziamento e protezione sono iniziate il 10 marzo e hanno funzionato

Roma. Centri anziani, case di cura e cliniche di riabilitazione. La vicenda delle Rsa, Residenze sanitarie assistite, è diventata un punto centrale di questa emergenza. Il Pio albergo Trivulzio di Milano è diventato un focolaio tragico del Covid-19 e ancora non è chiaro il numero delle vittime. Anche nel Lazio alcune case di cura hanno avuto episodi di infezione e contagio che hanno colpito i residenti di queste strutture, che ospitano per lo più pazienti anziani, oltre al personale sanitario che se ne occupa. Ma in questi giorni c’è chi ha parlato di una situazione “a Roma simile a quella milanese”, mentre c’è chi sostiene che, nelle Rsa del Lazio, l’esplosione di focolai avrebbe potuto fare molti più danni. E’ stata invece intercettata, in tanti casi, grazie a precauzioni e direttive attuate con estremo tempismo, come ci racconta un medico fisioterapista che lavora da anni in una clinica di riabilitazione di Roma, privata ma convenzionata con la regione, che ospita molti pazienti anziani: “Sicuramente nel Lazio si è preso atto dell’emergenza in uno stadio meno avanzato della diffusione, rispetto alla Lombardia, quindi siamo riusciti a contenere una situazione che è invece degenerata al nord. A mio parere abbiamo preso delle ottime precauzioni, dettate da direttive regionali che erano rivolte a tutte le Rsa, le case di cura e i centri anziani del Lazio. Il 10 marzo abbiamo sospeso tutte le visite degli esterni, con alcune proteste da parte dei parenti dei malati che i nostri uomini della sicurezza hanno dovuto gestire. Quando tutti hanno capito che era una misura per garantire la salute dei nostri pazienti, non ci sono stati più problemi. Abbiamo eseguito degli screening a tutti i medici della struttura e ai pazienti esterni. Dovevamo ammettere una signora che però aveva la febbre e che è stata quindi mandata prima allo Spallanzani, dove ha fatto il tampone ed è risultata negativa. Se avessimo ammesso un positivo oggi alcuni dei nostri pazienti potrebbero non esserci più. Quando 15 giorni fa una paziente ha avuto la febbre, i medici che l’avevano trattata sono tornati a casa e le è stato fatto il tampone. Solo dopo l’esito negativo il personale è potuto tornare al lavoro e la paziente è tornata a fare fisioterapia con gli altri. Ma la prassi è questa. Ogni volta che c’è un caso sospetto si isolano tutti quelli che potrebbero esserci entrati in contatto e si esegue un tampone. Di cui per fortuna, nella nostra regione, c’è stata disponibilità sufficiente a non creare focolai drammatici. Se io avvertissi dei sintomi dovrei autoisolarmi e aspettare che la regione mandi dei sanitari a visitarmi per eseguire il tampone. Detto ciò le mascherine cominciano ad arrivare in numero sempre maggiore e abbiamo già i kit per testare la positività tramite il sangue. Sia i pazienti che i medici devono misurarsi la febbre due volte al giorno. Posso dire che mi sento sicuro e protetto, in questo momento. E credo anche i nostri pazienti”.