foto di Simone Ramella via Flickr

Il Brancaccio, mezzo museo (in causa) e mezzo teatro (scissionista)

Michele Masneri

Il Brancaccio fu una strana creatura da subito: tirato su nel 1896, fu l’ultimo palazzo principesco costruito a Roma, per l’ultimo grande matrimonio d’interesse dell’Ottocento romano

Che genius loci. A giugno, sul palco del romano teatro Brancaccio, si componeva “un percorso politico senza padroni, senza media alleati, senza mezzi. Un percorso da outsider” nelle parole di Tomaso Montanari, dux e dominus di quel movimento da outsider subito ribattezzato “gruppo del Brancaccio”, fondato dallo storico dell’arte su base anti-referendaria e anti-renziana. Il movimento veleggiava rampante per l’estate ma non arrivava all’autunno, ed ecco ora “uno scontro tra partiti, un’atmosfera esasperata” nelle parole degli outsider stessi, e “il percorso del Brancaccio non c’è più”. L’assemblea del 18 novembre cancellata, problemi con Mdp e Sinistra Italiana, gli scissionisti si son scissi, il Brancaccio non si farà più.

 

Succede. La location però forse ha un ruolo. Il teatro Brancaccio, e l’omonimo palazzo che lo contiene, al limitare della via Merulana, son stati da sempre divisivi. Certo, se al momento è in scena “Aggiungi un posto a tavola”, fondamentale musical di Garinei e Giovannini, inclusivo fin dal titolo, attualmente chi passasse sotto la severa facciata toscaneggiante dello stesso palazzo, leggerebbe però un grave cartello, “chiuso”. Si riferisce non al movimento degli outsider ma al Museo nazionale d’Arte Orientale, che qui pure alberga e che verrà chiuso, e trasferito all’Eur. Di qui, petizioni, polemiche, appelli (l’unico business rimasto a Roma). Istituito nel 1957, il museo custodisce la più importante raccolta di arte orientale italiana, comprendente oltre 40 mila reperti provenienti dal Tibet, dal Nepal, dal Giappone e dalla Cina. Ma visitatori, pare, molti meno.

 

Il palazzo ha tenuto insieme altre convivenze, spesso turbinose; ci sono ancora i principi Brancaccio che occupano una parte dell’edificio; e l’attrice Nancy Brilli in coabitazione forse dialogante col celebre chirurgo estetico Roy De Vita. Accanto, nello stesso stabile, proprio il teatro Brancaccio, che ospita i musical e congressi di psicoanalisti.

 

Il Brancaccio fu una strana creatura da subito: tirato su nel 1896, fu l’ultimo palazzo principesco costruito a Roma, per l’ultimo grande matrimonio d’interesse dell’Ottocento romano. L’ereditiera Elizabeth Hickson Field, nata nel 1846 a New York, figlia di un importante broker di Borsa, nel 1870 sposa don Salvatore  Brancaccio, discendente della famiglia principesca napoletana. La coppia si stabilisce a Roma e la principessa, che ha portato in dono un milione di dollari, vuole un palazzo più grande, e vuole soprattutto vicino i genitori. Fa dunque costruire il colossale edificio a via Merulana, prima dei pasticciacci, dall’archistar Gaetano Koch, autore anche della Banca d’Italia, poi, siccome il progetto non è abbastanza grandioso, ne prende un altro; sloggiando un convento di suore. Per l’interior design prende il decoratore reale, Francesco Gai, considerato poco gentilmente dai manuali “il poliedrico erede delle più ovvie convenzionalità accademiche nella Roma del papato in declino”. Il risultato è un casamento finto-antico-toscano, con alti basamenti bugnati e un triplice portale con balcone su colonne, oggi entrata del Museo (chiuso). Al primo piano vanno a stare i principi, al secondo i suoceri americani (chissà se gli sarà piaciuta la Roma umbertina). Oggi ci stanno appunto il museo (in chiusura), il movimento del Brancaccio (in chiusura), gli psicanalisti, e si organizzano anche matrimoni. Gli abitanti del quartiere, ceto medio riflessivo molto provato, sono soprattutto disturbati dai gran parcheggi in doppia fila al Brancaccio (nel senso di teatro), quando ci sono gli spettacoli. La scissione degli scissionisti li preoccupa, temiamo, meno delle strisce blu.

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