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I sospetti del M5s sul piano Calenda: "Puntano a commissariarci"

Valerio Valentini

Raggi chiede poteri speciali. Una parte dei suoi diffida e sulla pelle di Roma si gioca una partita politica

Roma. “La situazione del tavolo su Roma sta rapidamente superando la soglia del ridicolo”, ha detto ieri il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda. Ma se la si dovesse risolvere su un piano strettamente psichiatrico – e non solo comico – la si potrebbe forse liquidare come paranoia, e chiuderla lì. Una forma, bizzarra e cronica, di delirio di persecuzione: questo sarebbe. Il fatto, però, è che l’alterna disponibilità del sindaco di Roma, Virginia Raggi, di fronte al piano per Roma, è affare politico. Come ha raccontato il Foglio già la settimana scorsa. Prima la sindaca non risponde, poi risponde, poi non risponde di nuovo, e infine – ieri – ha caricato così tanto di complicazioni legislative il piano, chiedendo poteri speciali, da far intravvedere il fallimento dell’intera operazione.

 

L’incontro tra Raggi e Calenda, salvo novità dovrebbe tenersi il 17 ottobre. Ma quella che potrebbe apparire una svolta, un ravvedimento perfino, ad indagarla sul serio finisce ben presto per rivelarsi altro. Ci si aspetterebbe infatti che a questo tavolo la giunta si apprestasse con spirito costruttivo, battagliera comme il faut ma propositiva. E invece, più d’ogni altro, il sentimento che risulta prevalente, parlando con gli esponenti pentastellati che gravitano intorno a Palazzo Senatorio, è il sospetto. Peggio: la paura. E non solo perché, a quanto pare, le proposte grilline chiamate “fabbrica Roma” in realtà non esistono, e sono una scatola vuota. Ma anche perché, quasi come fosse una tara mentale, i cinque stelle si attendono un tranello. Timeo Danaos et dona ferentes. E insomma, “se non si è capito quello di Calenda non è un aiuto, ma l’ennesimo tentativo di commissariare Roma”: questo è quello che si vocifera in Campidoglio sulle reali intenzioni del ministro dello Sviluppo. “L’ennesimo”, addirittura, sì. La consigliera Sara Seccia, classe 1982, praticante avvocato e spirito guerriero, la mette giù in modo esplicito: “Propongono una collaborazione non richiesta ma di fatto puntano a siglare accordi che gli danno il potere di decidere al posto nostro: ecco come preparano il commissariamento”. Il soggetto – come la sintomatologia del caso prevede – è alla terza plurale: vago, però, solo in apparenza. Perché per i consiglieri grillini la regia del piano è senz'altro del Nazareno: “Ed è per questo che da parte del Pd in Campidoglio per ora non c’è stata alcuna reazione: lasciano fare il loro governo”.

 

Chi, invece, anche nelle ore più tese della trattativa tra il Campidoglio e il ministero della Sviluppo ha predicato prudenza è Stefano Vignaroli. Deputato romano, compagno della pasionaria Paola Taverna, ha fatto anche lui qualche breve comparsata nel mini-direttorio capitolino, nell'estate del 2016. E a chi gli chiedeva un parere, nei giorni scorsi, ripeteva: “Certo, l’atteggiamento di Calenda è ridicolo. E le sue sciocche dichiarazioni dimostrano chiaramente come l’intera operazione sia più che altro un pretesto per fare propaganda contro la Raggi. Ma da quel tavolo non possiamo scappare, anche perché sono in ballo dei soldi per Roma”. La condizione irrinunciabile per avviare il colloquio, però, è chiara. La indica Vignaroli e la ribadiscono anche i consiglieri capitolini: “Ben vengano i fondi, ma a gestire i finanziamenti e dirigere i lavori deve essere la giunta, non il ministero. Non è pensabile che l’erogazione di contributi si traduca in uno scippo di competenze e prerogative che appartengono al Comune”. Dialogo, Pedro, ma con juicio. E con la tentazione, magari, di avvelenare la trattativa giocando al rialzo, mostrarsi intransigenti e, al limite, provocare l’incidente che faccia saltare il banco. E’ la consigliera Seccia a svelare la strategia che la giunta ha intenzione di adottare: “Virginia andrà lì con richieste precise: fondi straordinari e poteri speciali, per la sicurezza in primis, che loro non accetteranno”. E a quel punto, è la logica conseguenza, sarà più facile giustificare la diserzione.

 

Ecco, dunque, che la diagnosi si complica. Perché sì, la paranoia c’entra, ma c’è dell’altro. Ha i tratti tipici del fanatismo, questa settaria chiusura nei confronti di ciò che è altro da sé; un rifiuto di contaminazione che denuncia, al fondo, una paura del confronto. Si sforza di comprenderlo, l’atteggiamento dei grillini, anche Oscar Giannino. Confida che da giorni ci pensa: da quando per la prima volta ha avuto sotto mano il dossier realizzato da Calenda, e l'ha subito trovato di ottima fattura. Ci pensa. Ci ripensa. E alla fine però s’arrende: “E’ inutile, i presupposti di questa loro diffidenza io proprio non li capisco”. Ragiona Giannino: “La proposta di Calenda è la prima mossa che finalmente chiarisce un abbaglio che in Italia dura da almeno vent’anni: l’idea che, nel mondo globalizzato, la capitale di uno stato industrializzato possa gestirsi da sola e pianificare il proprio futuro a livello puramente amministrativo”. E invece? “E invece occorre rendersi conto che oggi la produttività e l’attrattività funzionano solo se incardinate su grandi aree metropolitane – a questo servono le capitali – che hanno specializzazioni elevate e un certo mix di beni e servizi avanzati messi in rete con un’economia regionale a forte innovazione nei vari settori. Ecco, il piano Calenda non è la panacea di tutti i mali di Roma, ma è un'opportunità importante per questa città”. Capirla o non capirla, la riluttanza grillina, diventa dunque secondario. “E’ semplicemente ingiustificata”, conclude Giannino.

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