Virginia Raggi e Massimo Colomban (foto LaPresse)

Chi sono e cosa fanno i nuovi "quattro amici al bar"

Giuseppe De Filippi

Le giornate di Raggi, le sofferenze di Colomban, le ambizioni di Bergamo e un sottomarino chiamato Frongia

Un minimo di assestamento c’è”, concede un osservatore autorevole e interessato delle cose comunali romane. Gli si chiedeva se si fosse formato un gruppo in grado di determinare qualche azione politica e amministrativa all’interno della giunta Raggi, indicando in Daniele Frongia, Luca Bergamo e Massimo Colomban una specie di terzetto di punta, con l’aggiunta di altri due assessori un po’ più attivi della media capitolina, Adriano Meloni e Pinuccia Montanari. Ma dopo la concessione di quel minimo il nostro interlocutore smonta ogni possibilità di dare a questo eventuale assetto di potere qualsiasi prospettiva di vera operatività, “non pretendiamo la nitida perfezione amministrativa di Vancouver – ci dice con un’iperbole oceanica – ma qui non si vedono cambiamenti, anzi sembra proprio che il Campidoglio non sia abitato”. “Lei” – intesa come Virginia Raggi – “se ne sta chiusa nella sua stanza e loro cercano di sopperire con un po’ di tecnicalità, di amministrazione appena sopra all’ordinario, ma si percepisce che sono attentissimi, prudentissimi, spaventati dal richiamo che arriverebbe a chi alzasse troppo la testa, in un certo senso a chi si trasformasse nell’odiato politico che decide”.

 

Perché il problema resta il rapporto con l’elettorato di stretto riferimento e con gli attivisti. Per questa ragione la sindaca ha presentato pubblicamente solo un progetto nato da una sua iniziativa, quello della surreale Funivia Casalotti-Battistini (mentre lo stadio della Roma non si può considerare un progetto di questa giunta e in teoria neppure della precedente, in quanto si tratta di una proposta fatta e finita all’esterno, da privati, e ricevuta come tale dall’amministrazione, fatte salve alcune modifiche marginali anche se presentate come grandi vittorie politiche). La funivia, sfidando un po’ l’ironia altimetrica, è fatta propria da Raggi perché l’idea arriva “dal basso”, da quella idea costantemente venduta come grande trovata politica del cosiddetto “ascolto”. In sostanza si tratta di un’istanza di un comitato di quartiere e la sindaca, sollevata così da qualsiasi ruolo propositivo o di indirizzo, si sente felice e grillescamente realizzata nel suo ruolo di portavoce, o di passacarte, tanto da aver avviato, con il supporto dello staff di Roma Mobilità una grande iniziativa di ascolto, per ascoltare tutti e farsi dare idee.

 

I tre indicati prima invece forse ascoltano un po’ meno ma provano a realizzare qualcosa. I primi due sono esposti e facilitati nel sembrare attivi anche dallo specifico ruolo rivestito. Frongia allo sport, attività che porta facilmente a grandi ribalte popolari e che, insomma, evitando di presentarsi in biancoceleste a un raduno di romanisti e viceversa, non dovrebbe portare nemici, e Bergamo oltre che vicesindaco responsabile della cultura che, a Roma, può essere terreno scivoloso di grandi errori ma anche col pilota automatico qualche risultato lo dà. E Bergamo comunque, conoscendo il settore se non altro dal punto di vista organizzativo da anni, errori giganti non ne fa e può coltivare un discreto rapporto con le poche istituzioni culturali cittadine e con il sistema dello spettacolo locale. Per entrambi c’è poi la possibilità di un qualche ruolo sulla scena nazionale, sia perché lo sport romano, si è visto con gli Internazionali di Tennis (evento su cui la giunta si è avventata come su una palla da finire con un potente smash), ha comunque risalto, sia perché invece l’amministrazione culturale e il ruolo di vice hanno portato Bergamo a essere interlocutore, spesso polemico, del ministero e dell’amministrazione centrale.

 

Non ce ne vogliano, ma sia Frongia, già un po’ bruciato nella bocciatura come capo di gabinetto, sia Bergamo, comunque una figura di secondo piano nel mondo veltroniano, sono zavorrati, sono tipicamente dei non-leader, resta da capire che succede con Colomban. Per l’imprenditore veneto spedito a Roma su ispirazione casaleggiana le cose si stanno complicando. Il suo grande piano di riordino della partecipate, che è il cuore del suo mandato come assessore, al momento non è né grande né è propriamente un piano. Ha provveduto a qualche nomina, ma siamo nell’ordinario, con il bravo Bruno Rota all’Atac, mentre all’Ama siamo già al terzo giro di nomi scelti dalla giunta a 5stelle e non si vedono ragioni concrete per cui questo debba essere il giro giusto, mentre all’Acea, dove con le voci non si scherza perché è azienda quotata, si parla di avvenuto respingimento per i nomi indicati dall’assessore (e non solo per le nomine di vertice). Tanto che tra Colomban e la mini-multinazionale delle utility non ci sarebbe più alcun rapporto fuori dalla minima formalità. E in più d’uno dall’interno aspettano di capire se dal Campidoglio si intenda dare un seguito alle indicazioni ideologiche dei 5stelle e della sindaca su temi come l’acqua pubblica, in grado di smontare il modello di business aziendale e di far fuggire i fondamentali, anche se minoritari, soci privati. Fermo su Acea, addirittura lontano da essa, Colomban non ha ancora mosso nulla nel resto della galassia delle partecipate. L’illustrazione del suo piano risale ormai a due mesi fa, e conteneva anche, attraverso chiusure e accorpamenti, la riduzione delle aziende da 21 a 12, con anche effetti sul personale. Nulla è accaduto, anzi, Colomban nella sua ultima uscita pubblica si è esibito davanti alla ipersinistra romana nel convegno dal titolo strettamente prescrittivo “aziende pubbliche partecipate bene comune inalienabile”. E’ andato lì a dire che forse bisognava cambiare titolo? No, è andato a dire che nelle aziende c’è una pesante eredità del passato e che senza un aiuto statale sarà difficile avere più efficienza a breve. Difficile che qualcuno lo ascolti dalle parti del ministero dell’economia. Ma il suo problema sembra sia che non lo ascoltano neanche dalle parti del Campidoglio.