Buche a canyon, buche a grappolo, famiglie di buche…

Giuseppe De Filippi

La riparazione limitata non esiste. I romani non vogliono accettare la regola, dura ma severa, per cui non si riparano le buche ma si riparano le strade

Uno gira per Roma, magari affidato alle ruotine di un’auto elettrica condivisa o alle ruotone di un autobus, e pensa alle buche. Sulla macchinetta, quelle gialle a due posti, ogni improvviso avvallamento è un precipizio, il tonfo è secco, un aut aut: si prosegue o si resta lì piantati. Sull’autobus è tutto più cinematografico. A ogni buca ben presa ci sono vibrazioni metalliche, lamiere che sbattono, stridio di vetri: sarà per la compresenza di altri viaggiatori sconosciuti ma sembra ogni volta un Titanic contro l'iceberg rifatto a Cinecittà. Uno vorrebbe pensare ad altro ma pensa alle buche. Ne viene travisato anche il giudizio sulla politica locale. Quello che dovrebbe essere lo zero amministrativo, il minimo del minimo nell'azione di governo della città, il corrispettivo, trovandosi in uno studio legale, del far le fotocopie, cioè il riparar buche, ne diventa invece il centro, se non si trattasse di buche verrebbe da dire il punto più alto. Anche il garante, quando si esaspera per l’inconcludenza della sindaca o per le sue cattive compagnie, le indica la terra promessa, ben livellata e pareggiata: pensa alle buche, ripara le buche, ordina il garante, fattosi portavoce di tutte le voci.

 

Eppure ritornano, perché la riparazione limitata non esiste. I romani non vogliono accettare la regola, dura ma severa, per cui non si riparano le buche ma si riparano le strade. O chiudi, sfondi, rifai tutto e poi riconsegni oppure hai messo una toppa che poi salterà e la buca sarà più cattiva e aggressiva di prima, come un’infiammazione curata solo col cortisone.

 

Intanto giri e pensi alle buche. Ti sfiora anche un’idea positiva. Candido e perverso insieme rifletti: e se le buche fossero la versione concava dei dossi studiati per costringere a limitare la velocità? E soprattutto per far rispettare la distanza, perché la guida a vista, la navigazione in cui si deve evitare la subdola depressione, ha bisogno, appunto, di visuale, e se sto a un metro dal Suv che mi precede la visuale non c’è e la buca spunterà improvvisa, spietata, inevitabile.

 

Poi c’è la consolazione di Piketty: l’indice di Gini per le buche di Roma mostra una distribuzione perfetta. Parioli e Tor Pignattara, Centro e Labaro: tutti con la loro razione, non ci sono snobismi né preclusioni o favoritismi, né c'è un occhio di riguardo per la Casta, con le strade attorno a Montecitorio o Palazzo Madama e soprattutto attorno allo stesso quartier generale della lotta alle buche, il Campidoglio, ridotte tali e quali a quelle di qualsiasi altro fondo dissestato urbano.

 

Piano piano l’osservatore attento sviluppa una sua buconomia. Ci sono quelle a canyon, solitamente trasversali al senso di marcia (o parallele se determinate dal contrasto tra i diversi comportamenti termico-meccanici dei materiali in prossimità dei binari dei tram), quelle a novanta gradi, le peggiori e le meno spiegabili, quelle a grappolo, famiglie di buche nate dopo successive riparazioni. E poi quelle a reticolo, piccole, quasi eleganti. E quelle in successione, legate alle serie di tombini. Ce n’è un esempio perfetto sul Lungotevere, nel primo sottopassaggio arrivando dal convitto nazionale subito dopo l’intersezione col ponte che porta a viale Mazzini. Sulla corsia di sinistra, appena comincia la discesa del sottopassaggio, parte una successione buca, pausa, buca, pausa, buca, che determina un andamento da lento convoglio ferroviario e con la sua ripetitività può terribilmente innervosire guidatore e passeggeri. Poi ci sono le buche radicali, cioè derivanti da radici. Non solo buche ma anche improvvise e ripide convessità. Sono le radici dei pini marittimi a causarle e lì l’errore è antico, in gran parte mussoliniano, e irreparabile, perché quei bellissimi alberi vanno a cercare nutrimento proprio a ridosso della superficie (i toscani, più accorti, mettevano a bordo delle strade sempre i cipressi, le cui radici scendono dritte in profondità, caratteristica che torna utile anche per il loro più lugubre impiego). E ci sono quelle, più garbate, nelle zone con sampietrini. A parte i casi di tassello proprio saltato e ormai assente (il rattoppo il più delle volte avviene con improvvisato asfalto e l’effetto estetico è quello di un brutto cerotto) nella lastricatura con sampietrini si determinano piuttosto leggeri avvallamenti a ondate, sconnessioni sì ma regolate da sinusoidi, e lì veramente si induce una guida accorta di cui forse avremmo rimpianti se invece il fondo stradale fosse perfetto, scorrevole, e quindi disponibile alle intemerate del guidatore romano aggressivo. Il tutto poi in una scombiccherata alternanza. Un esempio lo trovate percorrendo il lungotevere verso l’Ara Pacis e poi scendendo verso Ripetta: in 700 metri si alternano due dei rari episodi di lungotevere a sampietrino con due tratti in asfalto. Impossibile tenere tutto in ordine, mentre le conseguenze delle diverse risposte dei fondi stradali alle sollecitazioni inevitabilmente producono altre buche.

 

Infine le buche romantiche, perché come i poeti di inizio ‘800 stanno lì a osservare un orrido, uno sprofondo. Inquietano e danno vertigini: sono le buche sui viadotti e sulle sopraelevate. Non solo il tonfo della ruota e l’imprecazione, ma, incappandoci, non si può evitare di pensare all'ulteriore precipizio a pochi centimetri di distanza. Oltre la buca: l’abisso.

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