Claudio Marchisio - Foto LaPresse

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Beppe Di Corrado

Maledetti paragoni. Perché, poi? Tardelli, Conte, Gerrard. Tutti e tre, nessuno dei tre. Claudio Marchisio è solo un centrocampista. Un interno, una mezzala se volete. Uno che s’infila in mezzo agli avversari, s’allarga, stringe, s’accentra, scambia, s’inserisce, passa, tira. Segna, sì. Gol come mai ne ha fatti prima e gol come tanti ne hanno fatti quelli a cui lo paragonano. Non serve assomigliare per forza a qualcuno. Non quando sei arrivato a essere il leader della Juventus.

Maledetti paragoni. Perché, poi? Tardelli, Conte, Gerrard. Tutti e tre, nessuno dei tre. Claudio Marchisio è solo un centrocampista. Un interno, una mezzala se volete. Uno che s’infila in mezzo agli avversari, s’allarga, stringe, s’accentra, scambia, s’inserisce, passa, tira. Segna, sì. Gol come mai ne ha fatti prima e gol come tanti ne hanno fatti quelli a cui lo paragonano. Non serve assomigliare per forza a qualcuno. Non quando sei arrivato a essere il leader della Juventus. Perché questo è Marchisio adesso: numero uno di una squadra che ha trovato un’identità. La cosa potrà essere casuale, oppure non lo è per nulla: Conte ha dato un gioco, una struttura, un’idea alla Juventus e questo gioco, questa struttura, quest’idea passano attraverso i piedi e la testa di Marchisio. Analogie, non paragoni, allora: Conte era così nella Juve di Lippi. Ha semplicemente quello giusto. Il resto è il corollario: è juventino puro, viene dal vivaio, è cresciuto con la mentalità di un club dove vincere era un obbligo, ha lo stesso numero di maglia, ha la stessa propensione al gol.

Claudio è l’eletto di Antonio. E’ la chiave di sicurezza per entrare nella Juventus di oggi. Ad aprire la porta c’è Pirlo, ovvio. Lo dice anche Conte: “Andrea è un calciatore di categoria superiore. Lo sanno anche i compagni”. Però questa Juventus non sarebbe così, adesso, se non ci fosse uno come Marchisio. E’ la promessa che si realizza. E’ l’immaturo che matura. Lo vedi da come si muove, lo capisci da come lo cercano i compagni. Il gol contro il Cesena è la dimostrazione: prende palla sul centrosinistra, scambia con Quagliarella accentrandosi, supera un avversario, scarica su Vidal, si inserisce, prende posizione, si smarca al limite dell’aria, detta il passaggio, riceve, se la porta avanti col destro, calcia di sinistro. Dieci secondi netti: bisogna registrarli, archiviarli e spedirli in tutte le scuole calcio del mondo. La voce del catalogo: “L’azione perfetta di un centrocampista”.

Ha fatto molti gol belli, Marchisio. Quello con l’Inter dell’anno scorso. Quello con l’Udinese in mezza sforbiciata. Quello alla prima giornata di questo campionato contro il Parma: pallonetto al volo. L’ultimo, però, è il migliore: non come gesto tecnico, non come qualità estetica, ma come costruzione. Un godimento unico per un ragazzo così, cresciuto con l’idea di essere non un bomber, ma un centrocampista. Juventus-Cesena resta, anche al di là del gol all’Inter di quest’anno e alla doppietta contro il Milan. Resta perché è la perfezione modellata sull’identità, perché alla fine Nedved s’è presentato ai microfoni per dire: “Claudio è impressionante. Ha ancora margini di miglioramento, può diventare uno dei centrocampisti più forti del mondo”. Nedved, capito? Non c’è molto che valga di più come complimento. Non se sei juventino e se giochi in mezzo al campo.

A Marchisio non è servito aspettare per capire. Sa che Pavel non regala niente neanche oggi che fa il dirigente. Claudio lo sa per mille ragioni. E’ un ragazzo della borghesia piemontese, viene da Chieri che sta appena sulla collina torinese, “è la terra del ghersin robatà, del grissino arrotolato, come la corsa nervosa dello juventino”, ha scritto Tony Damascelli. “Non è costato nemmeno un centesimo alla Juventus, a sette anni già vestiva i suoi colori, giocando con i pulcini bianconeri. Ha mangiato brioche e pallone osservando gli eroi delle sue figurine, sentendone la voce negli spogliatoi, Zidane e Nedved, Del Piero e Ibrahimovic, Thuram e Cannavaro. Su di lui ha vinto la scommessa uno che, soltanto a nominarlo oggi, provoca risate e sfottò: Gian Piero Gasperini. Era l’allenatore delle giovanili bianconere, individuò il talento del ragazzo, inserendolo, nonostante l’età precoce, nella formazione Primavera della Juventus, consegnandolo poi ai quadri della prima squadra. Se non ci fosse stata l’estate violenta di Calciopoli, con la transumanza di alcuni dei suddetti mattatori e altre defezioni, Marchisio avrebbe continuato, forse, a spazzolare le scarpe da gioco e a guardare la Juventus da tifoso e da giovane promessa.

Lo mandarono a Empoli per imparare che la vita di un calciatore non è soltanto la gloria di appartenenza a un grande club o la residenza e il domicilio comodi, gli preferirono, nel frattempo, operai di centrocampo però pagati come architetti. Un anno fu sufficiente per capire che il principino era di stoffa giusta. Sapeva calciare e con potenza, il fisico asciutto non gli impediva contrasti energici, la voglia di fare lo portava ovunque sul campo, era Figaro in soccorso dei sodali di squadra. Marchisio oggi è questo: svolge le tre funzioni del calciatore moderno: difesa, mediana, attacco. E’ rimasto coinvolto, con gravi intossicazioni, nei maldestri disegni tattici dei predecessori di Conte che lo avevano spostato a destra, a sinistra, togliendolo dalla cucina centrale, dove il campo ha spazio e luce, indispensabili per un calciatore con le sue caratteristiche. Oggi, con Antonio Conte, ha raggiunto una maturazione completa, è il presente e il futuro della Juventus e della nazionale, venticinque anni è l’età giusta per rappresentare il punto di riferimento del gruppo”.

Principino, il soprannome. Già letto qualche riga più in su. Vale per le movenze, per la magrezza che lo fa assomigliare a un nobile fino a quando non scopre le braccia tatuate grossolanamente. Perché è moderno nel modo di giocare e in quello di pensare, anche se a molti ricorda sempre qualcuno del passato. Tardelli è stato citato più volte, in quest’ultimo periodo. No, grazie. Né per lui, né per Marco. Qualche tempo fa, quando glielo fecero notare rispose così: “Dicono che assomiglio a Tardelli. Ho visto i dvd con i suoi gol: in effetti un po’ mi riconosco. Certo, quando lui urlava al Bernabeu, io non ero ancora nato”. L’anagrafe modella le differenze più dello stile di gioco. Claudio è se stesso.

A cominciare dall’orgoglio di una juventinità che negli ultimi anni non esisteva. C’era Del Piero. Punto. Non c’è stato altro giocatore che abbia professato amore incondizionato per la Juve, in questi ultimi cinque anni. Neanche Buffon, che pure è una bandiera e che pure è rimasto anche con la squadra in B. Marchisio è la nuova generazione, il primo juventino dichiaratamente juventino nell’era post Calciopoli. Una volta disse: “Calciopoli è stato il mio colpo di fortuna”. Non c’entrava la Juve. C’entrava il fatto che senza lo smantellamento della squadra lui non avrebbe trovato spazio. Classico scenario: un giovane della Primavera sia pure bravo non ha possibilità di essere lanciato in A in una squadra che voglia vincere scudetto e Champions. Ciò che accade all’estero è precluso da noi. Lo sappiamo, sì. L’abbiamo detto, scritto, letto e sentito. Non c’è Cantera, non c’è cultura. Ecco, a Marchisio è servita la retrocessione in B della Juventus: l’hanno preso e buttato in campo. Vai, ragazzo. E’ andato. Lì è cominciato lui, il bambino che smette di essere piccolo e cresce, passa dalle giovanili alla prima squadra, esordisce, convince, s’impone, resta. Un Totti o un De Rossi a Torino: roba strana per una squadra e una città abituata negli ultimi decenni a comprare più che ad allevare. Marchisio è stato un cucciolo e adesso Juve Channel manda a profusione i video amatoriali delle sue partite da bambino: pulcini, esordienti, giovanissimi, allievi. C’è un gol che è arrivato anche su YouTube: 31 maggio 1998, Juventus-Inter, lui prende la palla nella sua metà campo, salta due avversari, corre, corre, corre, scambia con un compagno, uno-due, altra corsa, altro dribbling, tiro dal limite dell’area. Sinistro. Gol. Dodici anni: aveva la maglia numero dieci, quella di Del Piero, che ovviamente è stato il suo idolo. Perché una cosa è chiedergli chi sia il centrocampista più forte del mondo secondo lui e allora ti risponde Gerrard, un’altra è chiedergli chi sia stato il giocatore che l’ha fatto emozionare quando era bambino. Eccolo Alex. Ed ecco il motivo: “La mia partita del cuore è Juve-Fiorentina 3-2. Il suo gol al volo lo vidi dalla curva Scirea del Delle Alpi. Tutta la famiglia era abbonata: mio padre Stefano, mia madre Anna, le mie sorelle Elena e Paola”. Se qualcuno vuole la storia del talento nato e cresciuto in casa, Marchisio soddisfa la ricerca. Chi osanna Xavi, Iniesta, Fabregas, Messi, Puyol, può anche fermarsi una volta sulla carriera di Claudio da Chieri, cintura torinese, dove c’erano gli uffici della Ferrero e poco più in là si riusciva a vedere la grande fabbrica di Mirafiori. Poi un po’ più in giù, lo stadio Comunale, non ancora Olimpico. Torino, Fiat, Juventus, calcio. Ha fatto in tempo a essere uno della generazione di Vinovo, la nuova cittadella bianconera dove si allenano tutte le giovanili e la prima squadra. Lì c’è un corridoio che unisce gli spogliatoi dei ragazzi con quelli della prima squadra. Appese ai muri ci sono le maglie di quelli che l’hanno percorso. C’è anche quella di Marchisio. “La cosa a cui tengo di più è la mia immagine”, dice spesso. L’ha detto soprattutto l’unica volta che ha fatto, forse, quello che gli altri non si aspettavano che facesse.

Era l’inizio dell’estate scorsa, preparazione al Mondiale di Sudafrica. Marchisio finì nel tritatutto virtuale per una presunta frase detta durante l’inno di Mameli dell’amichevole Svizzera-Italia. Un tifoso della Roma mise in rete il video dei giocatori azzurri che cantavano l’inno a Ginevra, sostenendo che il centrocampista bianconero, durante “Fratelli d’Italia” avrebbe pronunciato il più famoso slogan leghista: “Roma ladrona” tra “schiava di…” e “…Iddio la creò”. Accanto a lui il capitano Fabio Cannavaro, Alberto Gilardino e Vincenzo Iaquinta sorpresi e ghignanti. I tifosi giallorossi, sui loro forum, si scatenarono. Gli altri dietro. Notizia ghiotta. Marchisio dice veramente Roma ladrona? Via: lettura delle labbra, interpretazioni, fermo immagine. Replay. Paolo Cento, presidente del Roma Club Montecitorio, gli saltò addosso: “Qualora fosse vero meriterebbe immediatamente l’allontanamento dalla Nazionale”. Lui negò: “Non ho mai detto nulla del genere. Il fatto è che noi abbiamo finito di cantare e invece la musica è continuata. Ho ripreso, non andavo a tempo e ho detto Roma due volte. I compagni mi hanno guardato e allora ho buttato lì: ‘Fermiamo la banda’. Così ci siamo messi a ridere”. Molti i testimoni a favore della tesi difensiva. Gigi Buffon, portiere della Juve e della Nazionale: “Non ho visto il filmato, ma conosco Marchisio, mi sembra improbabile”. Poi il ct Lippi: “Ma per favore, Marchisio è un ragazzo esemplare, serio, fantastico”. Ancora, il capitano Cannavaro: “La verità è che siamo un paese ridicolo”. Finì tutto in fretta, anche grazie alla disastrosa avventura azzurra al Mondiale africano, nella quale Claudio fece male più di altri. Colpa soprattutto della scelta di farlo giocare sempre e costantemente fuori ruolo.

Comunque è rimasta quella storia. Non nei ricordi ufficiali e pubblici, ma dentro. Marchisio s’è sentito in dovere di confermare quello che avevano detto di lui i compagni e soprattutto di ribadire quella storia dell’immagine. Roberto Perrone ha scritto così: “E’ sempre stato quello che una volta le zie definivano ‘un ometto’. Gli piace l’inglese, lingua e calcio (Gerrard è il suo giocatore preferito). Ama i viaggi e il suo canale di riferimento è National Geographic. Soprattutto, è molto legato alla famiglia. Quella che lo ha messo al mondo. ‘Mi ha sempre sostenuto. E’ a mio padre che mi rivolgo dopo ogni partita. Mi dice le cose in faccia’. Quella che ha formato: ‘Quando torno a casa, guardo mio figlio, mi dà una forza incredibile’. Scambia email con Stefano Borgonovo, l’ex attaccante di Milan e Fiorentina malato di Sla. Marchisio non ha segni particolari, tatuaggi a parte”. Ha chiamato il figlio Davide, come il compagno di scuola morto di tumore troppo giovane. Dicono che la sua massima trasgressione sia stata dormire in macchina dopo una notte in discoteca, per non fare tardi agli allenamenti.

Si scrive, si dice. Un personaggio antipersonaggio. Uno che per quel gol segnato a 12 anni e mandato in loop da Juve Channel si commuove. E’ una faccia nuova, senza essere nuovo davvero. Non lo trovi facilmente, neanche quando lo cerchi. Fuoriclasse normale, l’hanno definito in questi giorni. Quasi un ossimoro per una storia che non assomiglia a molte altre, anche se tutti fanno a gara per cercare e trovare quei maledetti paragoni. Non ci sono, perché le analogie appartengono a un’altra categoria, meno affascinante, meno pruriginosa, meno notiziabile. Il bello è che Marchisio funziona proprio per quello: è così moderno calcisticamente da sembrare antico, ed è così lineare da sembrare straordinario. Basta e avanza in questo pallone che non sa dove andare. Basta e avanza a noi che eravamo in cerca di qualcosa di stimolante: abbiamo un italiano, allevato da noi, che comanda il campionato con due tocchi, giocando la palla con i compagni, usando destro e sinistro. La semplicità del pallone è rara e preziosa. Eccola qua, a dispetto degli altri e degli storioni importati con l’idea che ci debbano fare invidia. Marchisio c’è e ce ne saranno altri: basta cercarli, aspettarli, farli giocare.

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