Alessandro Dal Lago

Marianna Rizzini

C'era una volta a Genova un professore,  nel senso che fino a ieri Alessandro Dal Lago era soltanto un docente universitario di Sociologia dei processi culturali a Genova, un saggista noto e stimato che ogni tanto scriveva sul Manifesto. Da un paio di settimane Alessandro Dal Lago è anche l'uomo della polemica. Tanto che ora, quando qualcuno nomina a qualcun altro Alessandro Dal Lago, il qualcun altro  spontaneamente ribatte: “Ah, sì, quello che ha scritto il pamphlet contro Roberto Saviano”.

    C'era una volta a Genova un professore, nel senso che fino a ieri Alessandro Dal Lago era soltanto un docente universitario di Sociologia dei processi culturali a Genova, un saggista noto e stimato che ogni tanto scriveva sul Manifesto. Da un paio di settimane Alessandro Dal Lago è anche l'uomo della polemica. Tanto che ora, quando qualcuno nomina a qualcun altro Alessandro Dal Lago, il qualcun altro  spontaneamente ribatte: “Ah, sì, quello che ha scritto il pamphlet contro Roberto Saviano”. Alessandro Dal Lago, infatti, dopo aver pubblicato con Manifestolibri “Eroi di carta” – testo in cui si sostiene la tesi che la mediatizzazione dell'“eroe” e “icona” Roberto Saviano è una sorta di proiezione del senso di colpa collettivo che spinge a sentirsi con la coscienza a posto quando si sposa superficialmente la causa della legalità un tanto al chilo – è stato non solo bersagliato da commenti indignati su Internet (dal gentile “sei peggio di Vittorio Feltri” al truce “magari ci finissi tu tra i boss a Casal di Principe”), ma pure maleducatamente criticato da Paolo Flores D'Arcais (meglio mangiare una pizza o “fare sesso” che perdere tempo a leggere “l'ignobile attacco a Saviano”).

    Intanto si esprimevano in chiave vagamente censoria Luciano Violante (a volte la sinistra pecca di iconoclastia), Adriano Sofri (Saviano non è affatto un eroe di carta e il suo caso è il meno adatto per esercitarsi in anticonformismo), Pierluigi Battista (Saviano non dar retta ai tuoi detrattori), Paolo Di Stefano (con il suo libro Saviano ha smosso milioni di lettori, il resto sono chiacchiere), Marco Travaglio (chi dice che Saviano fa il martire denota forse insofferenza per i successi altrui), Gianni Riotta (“tutta invidia”) e persino Norma Rangeri (che come direttore del Manifesto pubblica gli articoli di Dal Lago ma come collega in giornalismo rivoluzionario, passata da Rossanda a Santoro, non esita a individuare sul Manifesto “il vizietto masochista” di “buttare giù” chi rappresenta “una speranza legata a una persona capace di interpretare e di rappresentare qualcosa di più di se stesso”).
    Sul Corriere del Mezzogiorno, invece, per rispondere all'accusa di iconoclastia, un Dal Lago imperturbabile si è chiesto se davvero la sinistra abbia bisogno di icone e ha ribadito il concetto espresso nel suo libro: “Nel caso Gomorra c'è un cortocircuito tra quello che l'autore ha scritto e il ruolo supereroico attribuitogli”. A questo punto il critico Alfonso Berardinelli, commentando il caso Saviano-Dal Lago, si è detto colpito dalla circostanza “che non si possa parlare male di qualcuno senza parlare male di Berlusconi, ritenuto la fonte di tutti i mali”. In realtà Dal Lago ha parlato passabilmente male di Berlusconi, anche nel suo pamphlet, ma la caustica critica a Saviano ha indotto i critici “de sinistra” a non accorgersene.

    Resta il fatto che questo curioso e intrattabile scrittore, lungi dallo starsene a guardare i tetti di ardesia di Genova immaginando gusci di tartaruga sulle note di Gino Paoli, si è messo a indagare l'immaginario epico che accomuna “Gomorra” e “Trecento”, il fumettone pulp-camp di Frank Miller, e a citare (non senza ironia) un Nichi Vendola superpoeta che spiega “chi sono i veri nemici di Roberto Saviano” (non tanto i Casalesi quanto, scrive Vendola, “quelli che pensano che hai sfruttato brutte storie per fare quattrini… che ti sei arrampicato su quell'albero lurido e avvelenato soltanto per svettare”).

    Per il resto il professor Dal Lago è un insieme di punti interrogativi (da dove viene? che faceva? che fa?) con un unico punto fermo: è di sinistra, ma di sinistra-sinistra, di sinistra un po' fané, quella che (ancora) discute di lotta di classe, processi di produzione, profitto mal riposto, globalizzazione selvaggia, operai che “bruciano negli altiforni”, persone che “perdono il lavoro e tirano la cinghia”, migranti che “annegano a centinaia davanti a Lampedusa” e “ministri che si sciacquano la bocca con l'economia sociale di mercato”. E però tutto questo essere di sinistra-sinistra non vuol dire, per Dal Lago, che non si possa criticare Saviano quando esprime “opinioni rigorosamente bipartisan” su studenti, guerra, pace, cultura e società e soprattutto quando scrive libri in cui il “linguaggio fumettistico” spadroneggia, “l'anacoluto è elevato a sistema di pensiero” e il messaggio “solo la lotta alla camorra conta”, prevale su tutto e mette al riparo da ogni attacco il Gomorra “feuilleton” e “blockbuster morale”. Non rinuncia, Dal Lago, a chiedersi se per caso non sia meglio interrogarsi sul conflitto di classe piuttosto che perdersi nel savianesco “universo binario”: di qua i mostri, la peste, gli orchi reietti degli acquitrini, i boss terribili; di là i buoni, i probi, gli eroi – e va a finire che lo schema binario, dice Dal Lago, viene applicato a tutta la realtà, con molta consolazione, molto moralismo e molto menefreghismo per tutti.

    Non è in televisione, il professor Dal Lago, è solidale con precari e immigrati ma non milita con evidenza e veemenza in un partito o in un popolo viola, né figura nelle cronache mondane – perlomeno di oggi, anche se un elegante esperto d'arte milanese ricorda un Dal Lago “frequentatore di feste a casa di Lina Sotis negli anni Novanta, e prima ancora un Dal Lago giovanotto studiosissimo e inseritissimo nel giro Inge Feltrinelli”.
    Alessandro Dal Lago – apprende immediatamente chi lo cerchi invano per un'intervista – “usa il telefono cellulare come fermacarte” (come dice la sua compagna dall'apparecchio di casa, promettendo di lasciargli un appunto) e sui giornali preferisce scrivere piuttosto che figurare dalla parte dell'interpellato, come fa capire lo stesso Dal Lago, infine raggiunto ma subito perso, con un “grazie davvero, meglio di no”. E però Alessandro Dal Lago spunta da Internet con i capelli bianchi arruffati, la faccia magra da profeta e le borse profondissime sotto gli occhi e, prima che come professore di Sociologia nato a Roma nel 1947 e vissuto a Pavia fino al 1977, figura come antico e assiduo frequentatore di filosofi del pensiero debole e come autore di libri su temi di argomento a dir poco variegato, dal tifo calcistico al politeismo all'ordine infranto al gioco alla devianza ai migranti invisibili al doppio legame al popolo della notte.

    Pensiero debole, filosofi. Chissà, ci si chiede allora, se i filosofi del pensiero debole e gli intellettuali o gli scrittori che frequentavano i filosofi del pensiero debole se lo ricordano, questo Dal Lago, quando, giovane ricercatore universitario, frequentava a Milano il giro delle riviste “Aut Aut” e “Alfabeta”, le riunioni di fenomenologi e le disquisizioni su Karl Marx e sulla crisi della ragione. C'erano (fisicamente o come estensori di articoli) pensatori e poeti. C'erano Pier Aldo Rovatti, Nanni Balestrini, Umberto Eco, Antonio Porta, Salvatore Veca, Remo Bodei, Massimo Cacciari, Omar Calabrese, un giovane Carlo Formenti e un giovane Maurizio Ferraris. Fatto sta che oggi il professor Gianni Vattimo, guru del pensiero debole, raggiunto al telefono durante un soggiorno in Inghilterra, di Dal Lago dice, con tono sornione: “L'ho perso di vista, l'ho rivisto una volta a Genova… ma oh, mi raccomando, trattatemelo bene”. Nanni Balestrini assicura di aver incrociato Dal Lago “qualche volta”, ma non si inoltra in reminescenze anni Settanta. Pier Aldo Rovatti, invece, non solo ricorda il Dal Lago d'antan, quello con cui faceva “vita comunitaria in una strada di Lambrate, prendendo caffè e andando su e giù dagli appartamenti di uno stesso stabile che avevo trovato per me, per gli amici e per i colleghi”, ma dice di intrattenere ancora con Dal Lago un rapporto telefonico Genova-Trieste (dove abita Rovatti), fatto di “molto affetto e amicizia da parte di entrambi e paterni rimbrotti da parte mia”. Rovatti aveva ricevuto “Eroi di carta” in bozze all'inizio di marzo, quando Dal Lago si era recato a Trieste per uno “dei suoi giri”. Pare infatti che Dal Lago, dice Rovatti, “ami molto infilarsi in dibattiti di secondaria importanza in luoghi remoti del paese, ragion per cui spesso diserta gli appuntamenti già presi”. “Leggi questo”, ha detto in marzo Dal Lago a Rovatti, tra un convegno e un incontro alla Scuola di Scienze sociali. Rovatti non l'ha letto; forse, dice ,“per la stessa ragione per cui non ho letto Gomorra: non sono un lettore onnivoro, non tutto mi appassiona”. Dal Lago è ripartito, ma dall'America che lo vide insegnante a Philadelphia richiamò l'amico: “Allora, l'hai letto?”. Rovatti continuò a non leggere, fino a che un giornalista del Corriere del Mezzogiorno non lo chiamò per chiedergli un parere sul pamphlet anti Saviano di Alessandro Dal Lago. A quel punto Rovatti ha letto e ha scritto (sul Piccolo di Trieste) che il messaggio del suo amico “è anche coraggioso”, ma che forse il suo amico “si è lasciato prendere la mano”; e comunque, spiega, “basta con questa storia del Dal Lago esponente del pensiero debole: Dal Lago è di pensiero fortissimo, e molto innamorato delle proprie idee”.

    E però sono solo punzecchiature tra vecchi amici: “Gli voglio talmente bene che sono pronto a difenderlo anche difendendo i suoi difetti”, dice Rovatti. Sembra ieri che Rovatti e Dal Lago scrivevano insieme il libro “Per gioco” (ed. Raffaello Cortina), a quattro mani ma ognuno per conto suo, un capitolo per uno e nessuna firma per distinguere chi ha scritto cosa. Sembra ieri che del libro sul gioco si discuteva sul campo, a margine di una partita a poker tra habitué, in una stanza in via Catalani, a Lambrate, tra una rilettura di Michel Foucault, prima comune passione, e una chiacchiera sull'ultimo gatto adottato, seconda comune passione di due amici che dal quarto al terzo piano si passavano sale, olio e idee per il prossimo numero di una rivista.
    Dal Lago tifava Milan, Rovatti tifava in generale molto poco e comunque – inaspettatamente – parteggiava per la Lazio (retaggio infantile: i suoi fratelli maggiori, giocando a Subbuteo, gli rifilavano sempre le ciofeche, all'epoca Lazio e Fiorentina). Il giovane Dal Lago era giunto nel capoluogo lombardo da Pavia, dove aveva studiato Scienze politiche, laureandosi con lode, e dove si era barcamenato a lungo tra un contratto, una borsa di studio e un periodo da assistente volontario – gli amici di allora, per esempio la sociologa Bianca Beccalli, oggi dicono “sì, certo, lo conoscevo quando eravamo ragazzi” ma non aggiungono altro, ché ci vorrebbe “davvero molto tempo per raccontare bene quel periodo”. In ogni caso Dal Lago si spostò a Milano, carico di pubblicazioni e dissertazioni su Max Weber e Hannah Arendt, e da lì non si mosse fino ad approdare all'Università di Bologna, prima, e a quella di Genova, poi. A Milano il Dal Lago di ieri girava con la fidanzata Giovanna Bettini, esperta di editoria, poi diventata sua moglie; a Genova il Dal Lago di oggi partecipa a qualche dibattito in libreria, non lontano dalla Darsena, e divide un appartamento con la nuova compagna Serena Giordano, esperta d'arte.

    C'è chi ricorda Dal Lago in spiaggia, alle Cinque Terre, in tempi in cui la sociologia era considerata disdicevole in società – ma Dal Lago si definiva senza complessi “sociologo”. C'è chi lo racconta come “uno che faceva la spola tra la Liguria e la Lombardia curando una rivista per la casa editrice underground-cyberpunk Shake”. C'è chi lo descrive, in quel di Genova, “compagnone e per niente ‘barone', sempre disponibile con gli studenti e ancora simile al Dal Lago che ai tempi del G8 2001 scriveva sul Manifesto articoli sulle mutande appese alle finestre (invise a Berlusconi), e chi invece lo giudica “sicurissimo di sé, antipatico a tavola e superbo in ambito accademico come neppure la Genova del Petrarca” (al che si rende indispensabile un recupero del Petrarca: “Arrivando a Genova vedrai una città imperiosa, coronata da aspre montagne, superba per uomini e per mura, signora del mare”).

    Un vecchio amico parla di Dal Lago come di “un professore molto preparato e poliglotta
    , che legge tutto ma non solo quarte di copertina, uno dal piglio deciso e con volontà di apparire estroverso, anche se non sempre ci riesce”. Un detrattore racconta invece di una commissione universitaria presieduta da Dal Lago che decide la sostituzione di un docente a contratto “con criteri ideologici e quantomeno discutibili” – ma all'interno dell'Università c'è chi lo scagiona: “Dal Lago non si presta certo a giochi di potere, è uno che viene, fa lezione e va”. Fatto sta che a Genova Dal Lago si è appassionato, in università e fuori, al tema “la città e le ombre” – ovvero i criminali “normali” della notte (con Emilio Quadrelli, Dal Lago ha scritto sull'argomento un libro per Feltrinelli, frutto di una ricerca in cui si ascoltano direttamente vecchi contrabbandieri, uomini d'onore, rapinatori, organizzatori del gioco d'azzardo, prostitute, spacciatori, ladri e portaborse del crimine, tutti intenti a parlare dei rapporti con mandanti, vittime e complici). Poi è venuto il momento delle “non-persone”, gli immigrati “invisibili” per gli abitanti delle metropoli, ed ecco che Dal Lago ha scritto un altro libro per Feltrinelli – e un giorno Rovatti, recensendolo per Repubblica, segnalò il seguente brano: “Un bambino dell'età apparente di otto o dieci anni viene portato al carcere minorile perché trovato per strada, a un incrocio, perché cerca di vendere qualcosa e perché ha tentato di sfuggire ai poliziotti… Il bambino è privo di documenti e non fornisce alcun nome credibile. Prima dice di chiamarsi Dumbo, poi Topolino, poi Paperino, poi John: dice di essere americano ma sembra arabo, poi si dichiara francese (ma secondo gli operatori del carcere potrebbe essere slavo). Una volta dice di venire da Roma, poi dalla Svizzera, poi dall'America, infine (sempre secondo gli operatori del carcere) inizia a ‘delirare': ‘Sono un extraterrestre, vengo dallo spazio'. E da allora continua sempre a dire di essere extraterrestre… Un giorno il bambino confida a un'assistente sociale che è divenuta sua amica: ‘Ma perché invece di essere extracomunitario non posso essere un extraterrestre?'”.

    Quello che è bello arrivare a capire è come sia stato possibile che da un Dal Lago così intimamente solidale con molte battaglie della sinistra, antagonista e istituzionale, sia uscito il Dal Lago irriverente verso il Saviano-icona. Un amico del professore tenta una spiegazione: “Dal Lago non sopporta i partiti presi ma non approfonditi, gli pare giustificazionismo occulto di altri mali”. Da questo discende, dice l'amico, “l'invettiva contro i lettori di Saviano che magari leggono un libro l'anno, anzi due, Moccia e Saviano, e che si sentono impegnati solo per il fatto di essere dalla parte di un Saviano che vede orde di camorristi in trasferta in Spagna e si preoccupa di ‘affliggere i confortati'”. Dal Lago, dal canto suo, consiglia ai lettori di Saviano non tanto di non leggere Moccia ma di prendere in considerazione Bertolt Brecht, quello del “che cos'è l'effrazione di una banca di fronte alla fondazione di una banca?”. Ma Brecht aiuta solo in parte a spiegare il Dal Lago polemista. Ci pensa da solo, a spiegarsi, Dal Lago, quando scrive: “A me un'idea di letteratura basata sull'adesione al punto di vista di un autore che pretende di essere creduto ed è garantito dalla sua parola, e solo da quella, non piace per niente”. Già che c'è, Dal Lago si permette un peccato di incoerenza: è vero, scrive, che nel 2008 “ho pubblicato una recensione di Gomorra in cui, pur sollevando diversi dubbi…, discutevo la maggiore efficacia di questo tipo di racconto rispetto al grigiore di molta produzione, sullo stesso argomento, delle scienze sociali”, ma è pur vero, continua il professore, che posso sempre giustificarmi con le parole di Karl Kraus: “Bisogna leggere due volte tutti gli scrittori, buoni e cattivi. Si riconosceranno i primi, si smaschereranno i secondi”.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.