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Le tre parole chiave con cui il centrosinistra può tornare a dettare l'agenda

Pier Carlo Padoan

Demografia, produttività, lavoro. Ecco da dove ripartire per dare uno slancio al paese senza essere ostaggi del populismo

Da tempo la politica è alla ricerca di “parole chiave”. Parole che esprimano concetti immediati, che parlino alla pancia e al cuore prima che al cervello. Paura, sicurezza, esclusione/inclusione, resilienza, fragilità, straniero/nemico. Dietro alle parole quasi sempre non c’è altro. Sicuramente non c’è quasi mai una visione. Quasi mai ci sono proposte articolate per tradurre le sensazioni in scelte politiche, per dare capacità di indirizzo alle parole chiave. Non a caso le parole chiave sono predilette dai partiti populisti e sovranisti. Nel centrosinistra sembra verificarsi il contrario. Ci sono le policy, c’è una visione del futuro. Manca la traduzione in parole chiave. Eppure parole chiave ce ne sono: viene subito in mente “crescita sostenibile”.

 

Non pretendo di suggerire una parola chiave efficace per il centrosinistra. Lascio questo compito a chi se ne voglia far carico. Invito solo a non vergognarsi di parlare di crescita né di precisare che la crescita debba essere sostenibile, sia socialmente, sia dal punto di vista ambientale, sia da quello finanziario. Già questa precisazione mostra quanto complesso sia il fenomeno della crescita e quanto sia complesso definire in concreto una politica per la crescita. Comprendere questa doppia complessità può essere utile a scegliere le “parole chiave” che possano meglio rappresentare la visione che il centrosinistra porta avanti. La crescita nel lungo periodo, quello in cui conta molto la “visione del futuro”, dipende da due ordini di fattori: la demografia e la produttività. L’Italia, si sa, è un paese che invecchia più di altri in Europa, che comunque invecchia di suo. E soprattutto per questo l’Italia sembra destinata a un declino inarrestabile. Ma non è detto che sia così. La demografia può essere cambiata, o quantomeno i suoi effetti mitigati tramite politiche per la famiglia, politiche previdenziali e politiche del lavoro. Altri paesi, anche vicini a noi, lo hanno fatto, sostenendo l’occupazione femminile e adottando politiche di gestione dell’immigrazione che permettano di dispiegare in pieno il contributo dei lavoratori stranieri alla crescita (e alla finanza pubblica). E politiche che permettano di minimizzare i costi della fuoriuscita dei nostri giovani. Quanto alla produttività siamo in presenza di grandi opportunità ma anche di rischi. Le economie dei paesi europei, ma non solo, fronteggiano un duplice choc: quello tecnologico (economia digitale) e quello ambientale (tecnologie pulite). Ovvie sono le potenzialità di fare interagire positivamente questi due fattori: una visione credibile per una economia verde muta le opportunità di investimento. La tecnologia digitale permette di raggiungere gli obiettivi di investimento nel modo più efficiente. Tutto ciò non avviene per caso. Sono necessarie politiche fiscali e finanziarie, norme, investimenti pubblici in presenza di fallimenti del mercato, politiche di produzione di capitale umano (cioè politiche per l’istruzione) che aiutino anche a definire quali tipi di competenze saranno richieste in futuro.

 

Sono necessarie misure che abbattano impedimenti strutturali agli investimenti, che si trovano nella Pubblica amministrazione, nella giustizia civile, nel sistema fiscale. Politiche che, nella gran parte dei casi, richiedono tempi lunghi per produrre tutti i loro effetti.

 

Gli impatti occupazionali dipendono, a loro volta, in modo trasversale da politiche che agiscono sia sulla demografia sia sulla produttività e che auspicabilmente si sostengano a vicenda. Al cuore del problema rimane non solo la sfida di come creare lavoro, ma quale lavoro creare per essere dalla “parte giusta” della rivoluzione tecnologica. Spesso questo aspetto viene sottovalutato. Nel dibattito sul “che fare” le politiche per il lavoro invece sono quelle a maggior rischio di strumentalizzazione. Lo testimonia la conversazione politica di queste settimane sul Jobs Act (riforma importante che avrebbe dovuto essere completata con le politiche attive). Il dilemma non è se abolirlo, magari reintroducendo l’articolo 18, o se lasciarlo come è; il problema è come migliorarlo per adattarlo al nuovo mercato del lavoro che gli choc tecnologici stanno plasmando.

 

In conclusione, tre parole: demografia (inclusiva), produttività (sostenibile), lavoro (di qualità), pronunciate insieme, definiscono una visione coerente con i valori del centrosinistra. Ce ne possono naturalmente essere altre. Quello che non dovrebbe cambiare è lo sforzo affinché il dibattito si concentri sui contenuti, parli al cervello.

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