Carlo e Rodolfo De Benedetti (foto LaPresse)

Storie di padri e figli

Salvatore Merlo

Altro che la bandiera del “tengo famiglia”. Carlo e Rodolfo De Benedetti, Luciano e Alessandro Benetton, fino al testamento di Caprotti contro gli eredi. Il familismo aziendale non regge più

"L’intervista rilasciata da mio padre qualche giorno fa ha generato disorientamento", scriveva il 13 dicembre su Repubblica Marco De Benedetti, il presidente di Gedi, il gruppo editoriale di famiglia. E quella del secondogenito, cinquantenne dall’aria spigliata e dicono libertina, era un lettera densa d’implicazioni, una decisa presa di distanze dalle parole dall’ottantenne Carlo De Benedetti, il papà. Una smentita dei suoi pensieri estremamente diretti e spettinati su Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica che aveva detto di preferire Berlusconi a Di Maio: “Penso che Scalfari l’abbia fatto per vanità”. Una presa di distanze dall’intensità scontrosa di un uomo, il vecchio CDB, che alla Fiat, quand’era amministratore delegato, era chiamato “la tigre”, perché implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile. Aveva quarantadue anni ai tempi del Lingotto, l’Ingegnere. Appena arrivato cacciò Gian Mario Rossignolo, che lui chiamava “aria fritta”, e accantonò Vittorio Chiusano, che lui chiamava “aria di sacrestia”. Ed è lo stesso uomo che oggi, sulla coppia alla guida di Repubblica, il giornale che lui ha regalato ai figli come tutto il resto, sulla formula della diarchia tra Mario Calabresi e Tommaso Cerno, si è espresso in questi termini, parlando con Aldo Cazzullo, attraverso le colonne del giornale concorrente, il Corriere della Sera: “Io ero e rimango assolutamente contrario. Nessun grande giornale al mondo utilizza questa formula”. Una cannonata del capostipite, che si è ritirato, ma pure è sempre lì, sulla garitta, capace, nei confronti dei suoi eredi e dei suoi manager, d’esercitare ancora uno spirito padronale più o meno esibito, che va dall’ironia alla bonomia, al sarcasmo, all’autorità fino alla pedagogia. E allora scriveva Marco, rispondendogli, lui che è anche il figlio che dicono somigli di più al padre, per indole e persino pettinatura: “Le opinioni espresse nell’intervista non rappresentano né il pensiero degli azionisti, né quello della società”. E sarebbe bastato già questo a dipanare la matassa di un piccolo romanzo famigliare e aziendale. Poi però, mercoledì scorso, la Stampa, l’altro giornale del gruppo Gedi, la società che i figli De Benedetti hanno costituito con John Elkann, pubblica in prima pagina, dunque con grande evidenza, la notizia dell’indagine a carico di Carlo (archiviata) per insider trading sui titoli delle banche popolari. “La Stampa pubblica la notizia e ai figli non dispiace colpire il padre”, titolano i giornali maliziosi come La Verità di Maurizio Belpietro.

 

Quello che tutti registrano, al di là della crisi di Repubblica, è questa spaccatura dinastica che rimanda alla letteratura e alla psicanalisi

E così quello che tutti registrano e raccontano, al di là della crisi di Repubblica, che sta nella crisi mondiale dell’editoria – e non si può ancora imputare soltanto ai figli ed eredi di De Benedetti – quello di cui tutti parlano, è questa spaccatura familiare e dinastica, questo scontro anagrafico e caratteriale, tra padre e figli che certo rimanda alla letteratura, alla psicanalisi, e dunque all’eternità della storia familistica d’Italia. Una vicenda che ricorda il conflitto tra Bernardo Caprotti, l’introverso e scorbutico inventore dei supermercati in Italia, l’uomo che si fece milionario nel boom degli anni Cinquanta intuendo la società dei consumi di massa, e i suoi eredi ripudiati e licenziati. Il vecchio e geniale Caprotti prima regalò loro tutto, e poi, pentitosi, si riprese ogni cosa, cacciando i figli in malo modo, ritornando lui al comando dell’impero Esselunga, a settantanove anni suonati. “Sono degli incapaci”, era sbottato Caprotti, dopo aver visto l’Argentil venduto a oltre cinque euro sugli scaffali dei suoi supermercati, “il 30 per cento in più rispetto a tutti i concorrenti, anche i più scassati, che l’avevano a 4”. E allora, proprio quando anche il grande vecchio Luciano Benetton, che aveva ceduto lo scettro al figlio Alessandro e poi a una serie di manager, torna alla guida di United Colors alla veneranda età di ottantadue anni perché “avevo lasciato l’azienda con 155 milioni di attivo e la riprendo con gli 81 milioni di passivo”, in tutto questo intreccio che sarebbe certo piaciuto al Vázquez Montalbán di “storie di padri e figli”, si può sospettare e intravvedere il fallimento di quel familismo aziendale, o capitalismo familiare, che pure ha fatto la storia d’Italia, disvalore rivoltato e dunque valore italiano: basta pensare agli Agnelli e ai Pirelli. Mito da esportazione. Perché la storia di queste dinastie, e dei rapporti tra padri e figli, tra fondatori rampanti ed eredi borghesi, sono un frattale della storia d’Italia, un simbolo reiterato che si trova in tutti i luoghi spaziali e temporali del paese, dalla Sicilia dei Florio alla Lombardia dei Pesenti, dal Lazio dei Caltagirone al Veneto dei Coin. Il vincolo di sangue, unica tossica eccezione alla legge economica del più forte.

 

Ed è insomma la famiglia italiana a essere qui messa in discussione, quella che fu la bandiera longanesiana del tengo famiglia, la famiglia come garanzia di vita dopo la morte, appartenenza organica, etnica e tribale, coincidenza tra luogo d’origine e luogo d’arrivo, patto d’amore, di sangue e di soldi. Nel suo testamento, in quelle tredici fitte pagine che lui volle trasformare nell’arma della sua ultima volontà scagliata contro gli eredi, Bernardo Caprotti rovesciò l’idea di famiglia, trasfigurandola in una trappola da respingere. “Famiglia non ci sarà”, scriveva l’ultimo tycoon della grande distribuzione italiana, mentre teneva lontani i suoi figli dal tempio aziendale e auspicava un compratore dall’estero per la sua creatura, il lavoro di tutta la sua vita. “Ma almeno non ci saranno lotte. O saranno inutili”, diceva, nel paese in cui invece le fabbriche chiudono quando passano agli eredi protetti; nel paese in cui le eredità sono sempre una lite.

 

E' in crisi l'eternità del familismo italiano, anche nella sua trasfigurazione amorale e criminale, quella mafiosa dei Riina

Quando le famiglie si fanno impresa, sempre i profitti e le virtù, le responsabilità e le irresponsabilità diventano beni e mali di famiglia, non importa se trasmessi dal figlio ai genitori, o dai genitori ai figli. Così nella storia dei De Benedetti, come in quella dei Benetton, in questo romanzo di sussurri e indiscrezioni attorno a cui si accavallano un’accozzaglia di dicerie e di leggende – il mite Rodolfo De Benedetti che non rivolge più il saluto al padre, i fratelli coalizzati con John Elkan contro il vecchio fondatore, lui tentato da un colpo di mano per salvare il salvabile – c’è forse davvero la crisi sociologica della famiglia come impresa. Non solo come società per azioni ma come società per parenti. E non c’è niente da fare. Non funziona quasi mai. Gian Luca Rana, il figlio del fondatore Giovanni, quello dei tortellini, ha cacciato i manager e si è messo a capo dell’azienda costruita dal padre. Si vedrà. Ma il meccanismo non funziona più. Non funziona nemmeno nella mafia, che è la distorsione scellerata del familismo italiano, che è “famiglia” nel senso di azienda criminosa, nell’accezione peggiore che ne dava Edward Banfield, il politologo americano che introdusse la nozione di familismo amorale. Maria Concetta Riina vende on-line cialde da caffè con l’immagine del padre stampigliata sopra, “offerta lancio in pre vendita. 150 cialde Zù Totò”. Salvo Riina fa il presenzialista da salotto, scrive libri, è andato in televisione, buffoneggia mentre il padre era silenzioso, muto, allusivo, “meglio una parola in meno che una parola in più”. E infatti, ogni volta che uno lo vede, non pensa precisamente che il figlio di Totò Riina riesca davvero a fare un favore all’immagine della mafia. Il suo non è marketing, ma la crisi di un modello.

 

E i figli, per forza di cose, sono quelli che la roba non se la sono guadagnata. E la seconda generazione è sempre quella sulla quale precipita la maledizione benedicente dell’eredità e della ricchezza. Ma quand’è che te la guadagni l’eredità? Anche i troni erano questo: i regni, le corone… E d’altra parte l’idea che l’erede sfasci l’impresa fiorente del padre fa pensare: ma perché non la dai agli altri, ai professionisti? Alessandro Benetton la cedette ad altri, a dei manager, l’azienda. E adesso invece torna il vecchio papà Luciano, a riprendersela, perché la cosa non funziona. I manager sono infatti freddi, e sono sempre i padroni che li riscaldano, che danno loro la linea e la filosofia. E si torna così all’origine del problema, che sta nella maledizione del lascito, nella famiglia, questa entità che designa se stessa con un’espressione così italiana e meridionale. I padri, i fondatori, gli uomini il cui successo è frutto dell’impegno e non del cognome, non si fanno mai davvero da parte. Dicono di aver assaporato tutto, di aver conosciuto tutto, affermano che adesso tocca agli altri, che passano volentieri la mano, che sono sono stanchi… “La Cir l’ho regalata ai miei figli. Ho già sistemato la successione patrimoniale, da vivo e da sveglio. Per evitare problemi in futuro. Così si fa”, ci ha raccontato una volta De Benedetti. E invece la sua è un’assenza presente. Dura la vita dei figli. E non solo quella dei figli di padri-monumento, dunque ingombranti come tutti i monumenti. Già lo raccontava Jean-Paul Sartre nella sua autobiografia: “Se mio padre fosse vissuto si sarebbe disteso su di me e mi avrebbe schiacciato”.

 

A 80 anni Benetton riprende in mano l'azienda. Caprotti licenziò i figli, a settasette.E CDB si ritira, ma la sua è un assenza presente

Ma come i padri che hanno conquistato la ricchezza non si fanno mai davvero da parte, così i figli non somigliano quasi mai ai padri. Rodolfo, il primogenito oggi a capo della holding familiare, è tanto modico nel parlare quanto nel comparire. Magro, sportivo e per bene, è il figlio che parla con una voce sempre in sordina, come se temesse che ogni parola pronunciata potesse essere ripetuta e snaturata, proprio come il padre è al contrario spavaldo, sempre attraversato dal godimento anarchico di sfidare l’universo intero, di prendere tutti i tori per le corna. E insomma gli eredi, come quei personaggi del film “il Gigante”, l’epopea dinastica dei petrolieri texani interpretata da Rock Hudson ed Elisabeth Taylor, non amano né capiscono le cose che invece piacciono ai padri, agli scalatori: un certo sapore della vita, una certa qualità aspra e forte dell’esistenza.

 

Quella di Luciano Benetton è per esempio la storia dickensiana di come quattro ragazzini di campagna, orfani di padre, siano riusciti a costruire un impero da quasi nove miliardi di euro. Per vivere come hanno vissuto i vecchi Benetton, Luciano e Giuliana, Gilberto e Carlo, occorre una volontà tesa come la corda di un arco, e una vigoria ferrea di nervi, una certa dose di fame. “Alla morte di mio padre per qualche anno stavamo bene”, ha raccontato anni fa Luciano. Ma poi ci fu la scuola lasciata, il precoce lavoro di commesso, il bisogno di denaro… Fino al colpo di genio. “Giuliana lavorava la maglia per un negozietto. Un giorno mi regala questo maglione giallo. Beh, tutti lo volevano disperatamente, stanchi dei colori necrofili dell’epoca. Ma nessuno, a parte me, ce l’aveva. Allora ho detto: dai proviamo, tu fai e io vendo”. Il denaro, quando c’è, esiste prima di noi stessi e ci presenta al mondo. Così, quando nel 2012 il giovane Alessandro Benetton, baciato dalla benedizione dinastica, ereditò i miliardi derivati da quel primo maglione giallo confezionato dalla zia e venduto dal padre, confessò, come attraversato da un presentimento, che “in quel momento non mi conveniva accettare, ma dovevo fare la cosa giusta”. Non andò bene, com’è noto. E Alessandro mollò nel 2014. Poi arrivarono i manager. E adesso torna Luciano, “con mia sorella Giuliana che, a 80 anni, ha ripreso a fare maglioni”. I genitori hanno mangiato i frutti acerbi, e i denti dei figli si sono allappati. E d’altra parte non ci precede la bellezza, non ci precede l’intelligenza, il denaro sì. E questo comporta qualcosa. “Lui ha sempre avuto abbastanza da mangiare. E’ per questo che non possiamo capirci”, dice a un certo punto Dario Asfasar, il self made man levantino, il “signore delle anime” raccontato nel romanzo di Irene Némirovsky. “Figlio mio ben nutrito, ricolmo di beni terreni e spirituali, tu non puoi capirmi. E’ nell’ordine delle cose”. E tornando a Sartre, che era felice di essere orfano, “un buon padre non esiste. E’ la norma”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.