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meno capitani, più capitali

Ita, Tim, Ilva. Come incentivare l'Italia dei capitali coraggiosi

Claudio Cerasa

La reputazione di un paese passa anche dai dossier industriali. E in attesa delle decisioni sulla compagnia telefonica e l'impianto di Taranto, Annunziata ci perdonerà se diremo che l’accordo Ita-Lufthansa è un punto a favore del governo

Nell’attesa che tutto vada male – e nell’attesa che il nostro paese finisca a scatafascio, come si dice, travolto da una “inevitabile recessione” che al momento si è però manifestata solo in Germania, da una “crisi occupazionale” che al momento però ha lasciato il posto a un boom di occupati e da un “imminente crollo della nostra economia” che al momento però può beneficiare di una crescita record tra i paesi dell’Ocse, la seconda migliore dopo il Canada, e da un livello di esportazioni altrettanto record, mai raggiunto nella storia recente del nostro paese – alcune cose che cominciano a funzionicchiare, in Italia, iniziano a intravedersi.

E tra queste, una molto importante da mettere a fuoco è quella che costituisce il tassello di un mosaico cruciale, intorno al quale nei prossimi mesi si andrà a misurare ulteriormente la reputazione dell’Italia. Il tema è ostico ma è decisivo. Ed è un tema facilmente intuibile se si scandiscono le tre lettere che hanno dominato la giornata economica di ieri: I-t-a. La notizia la conoscete già: il gruppo tedesco Lufthansa, ieri, non dando sorprendentemente peso alla grave notizia dell’addio di Lucia Annunziata alla Rai, desiderosa di denunciare le oscenità compiute da questo governo, è entrato ufficialmente nel capitale di Ita Airways, con una quota del 41 per cento, e con la possibilità, questa ancora da mettere nero su bianco, di arrivare fino al 90 per cento entro il 2025. Il governo Meloni, su questa partita, è riuscito laddove il governo Draghi aveva fatto cilecca – Draghi voleva vendere Ita a Lufthansa, il suo Mef affidò il dossier ad Air France, Meloni via Giorgetti ha tolto il dossier ad Air France e lo ha dato a Lufthansa – e per la prima volta nella storia recente della vecchia Alitalia si può dire che la partita della compagnia di bandiera (patrioti che vendono le nazionalissime bandiere: wow!) è finalmente definita, anche per merito di un governo che alle vecchie cordate di capitani coraggiosi ha per fortuna preferito le cordate dei capitali coraggiosi.

Il Pnrr è importante per la reputazione dell’Italia, come lo è la gestione del suo debito, ma la risoluzione di alcuni dossier incancreniti lo è altrettanto. E dopo aver risolto la partita di Ita, dopo aver messo in sicurezza lo stabilimento di Priolo (passato, per rispettare le sanzioni alla Russia, dalle mani di Lukoil a quelle dei ciprioti di Goi Energy, sperando che questi ultimi non siano solo uno schermo dietro al quale si nascondono investitori russi), il governo sa che la sua reputazione, il suo rapporto con i mercati, il suo rapporto con i privati, oggi passa da altre due partite non meno strategiche rispetto al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Due partite sulle quali si misurerà la capacità del governo di fare un passo ulteriore dalla stagione della propaganda a quella della realtà: Tim e Ilva.

Su Tim, la partita è tutto sommato semplice. Entro il 9 giugno, il board della società, che ha un debito che si aggira attorno ai 28 miliardi di euro (bum!), dovrà valutare le offerte ricevute per acquisire la sua rete (nota bene: più il tempo passa e più il titolo peggiora). Una prima offerta sarà quella del fondo americano Kkr (che ha già proposto di acquistare la rete mettendo sul piatto ventuno miliardi di euro, dieci in meno rispetto a quelli che si dice chieda il primo azionista di Tim, Vivendi). La seconda offerta (sulla quale in pochi fanno però affidamento) dovrebbe essere quella del consorzio Cdp-Macquarie (fondo australiano con cui Cdp è socia di maggioranza in Open Fiber). In Tim, il governo è indirettamente parte in causa avendo il 9,8 per cento della società attraverso Cdp (in cda di Tim siede il presidente di Cdp: Giovanni Gorno Tempini).

E il ruolo del ministero dello Sviluppo e del Mef sarà importante non solo per valutare l’offerta (meglio non fare gli schizzinosi con un debito di quelle dimensioni) ma anche per trasformare l’eventuale rete unica che dovrebbe nascere dopo la cessione di Tim della sua rete in un’occasione per coinvolgere i privati nel progetto. Il tema anche qui è evidente: dopo aver sognato di nazionalizzare Tim (vecchia linea del sottosegretario Alessio Butti, poco illuminato responsabile dell’innovazione del governo), sarà in grado l’esecutivo di creare le condizioni per salvare Tim non con i soldi dello stato ma con i soldi dei privati? Lo stesso discorso vale per Ilva, dove la partita se è possibile è ancora più complessa. Il governo, consapevole del fatto che l’interesse dell’attuale azionista di maggioranza nei confronti di Ilva non esiste più, è diviso tra chi vorrebbe dare a Mittal i soldi necessari per la decarbonizzazione della fabbrica (lo vuole Raffaele Fitto) e tra chi vorrebbe invece aumentare la quota pubblica con un passaggio dal 40 al 60 per cento del controllo dello stato (linea Adolfo Urso) provando a vendere la fabbrica ad altri privati dopo aver avviato i progetti di decarbonizzazione (più o meno seguendo lo stesso schema utilizzato dal Mef con Ita). Difficile dire quale sia la strada migliore tra le due (la logica direbbe che ha ragione Fitto, ma avendo Mittal deconsolidato, come si dice, la sua partecipazione in Ilva, e avendo promesso di non voler più investire nell’azienda, ragione per cui Ilva ha gravi problemi di liquidità, creare un ricambio il prima possibile è forse la soluzione ideale). Difficile non notare però che, anche qui, la reputazione del governo si giocherà lungo un filo delicato: dimostrare, non solo ai mercati, che l’interesse nazionale di un paese non lo si difende sventolando bandierine patriottiche, ma facendo di tutto e di più per mettere i privati nelle condizioni di scommettere sull’Italia. Su Ita è successo. E Lucia Annunziata ci perdonerà se diremo che questo è un punto a favore del governo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.